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A Palermo scopri come i ciclopi diventarono nani: la (vera) storia degli elefanti in Sicilia

I pachidermi hanno sempre suscitato ammirazione, tanto da fornire il materiale di perfetto per le leggende connesse all’origine siciliana dei giganti omerici

Aurelio Sanguinetti
Esperto di scienze naturali
  • 7 aprile 2023

Scheletro di elefante al Museo Gemmellaro

La Sicilia, per quanto ricca di monumenti e di luoghi esotici necessariamente da vedere, non è particolarmente nota ai turisti per via dei suoi fossili. Molti sono infatti principalmente attratti dalla nostra isola per la luce del suo Sole, per il calore delle spiagge e per l’inconfondibile sapore delle nostre ricette culinarie.

Eppure la nostra regione forse dovrebbe cominciare a essere riconosciuta anche come una capitale mondiale della ricerca paleontologica, visto come molti dei reperti fossili qui ritrovati sono considerati dagli scienziati come fra i più significativi e preziosi del pianeta, tanto da essere richiesti dalle più prestigiose realtà museali del mondo.

Fra questi fossili così importanti abbiano sicuramente i rinomati elefanti siciliani, pachidermi che tra circa 700.000 e 100.000 anni giunsero in Sicilia dalla Calabria, durante l’era glaciale, e che hanno attirato le curiosità delle decine di popoli che si sono alternati all’interno del territorio della regione.
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Molto apprezzati ancora al giorno d’oggi all’interno dei musei, questi animali hanno infatti da sempre suscitato l’ammirazione del pubblico, tanto da fornire il materiale di partenza perfetto delle leggende connesse all’origine siciliana dei Ciclopi omerici - su tutti il famoso Polifemo - o alla presenza biblica dei Giganti sulla Terra, descritti nell’Antico testamento.

In verità, nella loro tipica natura di animali in fuga dalle calotte glaciali che in quel periodo imperversavano in Europa, il paradosso vuole che questi fantasmagorici reperti siano appartenuti ad elefanti di piccola taglia, come è possibile osservare presso il Museo G. G. Gemmellaro a Palermo, che ne dispone di diversi esemplari.

E relativamente all’origine glaciale di questi piccoli “Dumbo”, gli interessati possono anche leggere un recente studio, pubblicato su Current Biology, che prende in esame proprio il genoma estratto da un cranio conservato presso l’istituto di corso Tukory.

Questi animali, seppur morfologicamente indistinguibili ai cuccioli dei loro attuali cugini asiatici (per dei profani), tuttavia si distinguevano in diverse specie e non vissero tutti contemporaneamente sull’isola, ma si dispersero in periodi ed epoche differenti, lungo tutto il bacino del Mediterraneo.

In Sicilia però le specie principali che riuscirono ad insidiarsi furono prevalentemente quattro, ovvero Palaeoloxodon antiquus leonardii, quello che risultava essere più simile al concetto stesso di elefante classico, Palaeoloxodon mnaidriensis, Palaeoloxodon melitensis, che seppur scoperto a Malta i suoi antenati probabilmente vissero in provincia di Ragusa e Siracusa, e Palaeoloxodon falconeri, che fra tutti era quello che raggiungeva le dimensioni minori, ovvero solo 90 cm alla spalla.

Queste quattro specie assunsero dimensioni ridotte per via di diverse spinte evolutive che costrinsero gli animali ad adattarsi alle difficili condizioni ambientali presenti in Sicilia e nel Mediterraneo durante le ultime fasi dell’Era glaciale.

Per quanto infatti la calotta glaciale non riuscisse a raggiungere la nostra isola, l’ecosistema era molto differente rispetto a quello che osserviamo oggi, risultando più simile al contesto forestale e di prateria continentale che attualmente è possibile osservare al di là delle Alpi, dirigendosi verso nord-est.

Quindi a quel tempo la Sicilia era molto più verde, ma anche molto più umida e fangosa rispetto ad oggi e oltre a mancare quasi dappertutto la macchia mediterranea, con la fauna annessa che vi abita, l’isola in quel periodo era anche connessa alla terraferma, per via dell’abbassamento degli oceani dovuto al clima rigido.

Quando però lo Stretto di Messina ritornò ad essere invaso dall’acqua del mare, con lo scioglimento dei ghiacciai, gli elefanti che rimasero prigionieri all’interno dell’isola furono costretti a limitare notevolmente le loro dimensioni, a seguito della scarsità delle risorse, del surriscaldamento climatico e soprattutto del ristretto pool genetico dell’intera popolazione.

Queste specie infatti avevano dovuto cominciare a riprodursi fra consanguinei, per via dell’abbattimento di tutti i ponti di terra che li collegavano alle altre popolazioni, con la conseguenza che in Sicilia si diffuse a macchia d’olio il nanismo, come provato dallo studio pubblicato su Current Biology.

Storicamente legata anche all’isola di Malta, dove è stata scoperta per la prima volta, la specie di elefante nano più rappresentativa, ovvero P. mnaidriensis, è inoltre quella che al giorno d’oggi presenta il maggior numero di ritrovamenti, fra cui quello fondamentale della Grotta dei Puntuali, una riserva naturale integrata della provincia di Palermo.

Qui infatti è stato trovato il cranio che ha fornito il materiale genetico necessario per lo studio del Paleo Dna della specie e che ha permesso di capire le varie fasi dell’evoluzione di questi organismi.

Storicamente sappiamo anche che per secoli la popolazione siciliana è stata solita estrarre le ossa di questi animali, per le motivazioni più disparate. Oltre agli scavi perpetrati da professionisti come Gemmellaro, alcuni cacciatori di guano, venduto per il fosforo, per esempio prelevavano le ossa dalle grotte per rivenderle, pensando che bruciare tali reperti potesse rilasciare un potere calorifico superiore rispetto a quando si brucia della normale legna o del carbone.

Altri invece scavavano solo per soldi, vendendo quello che veniva spacciato “souvenir di ciclope” ai turisti, come accaduto per i reperti prelevati illegalmente presso la grotta di San Ciro, alle porte di Palermo, durante la seconda parte dell’Ottocento, che presentava una delle collezioni più ricche di fossili appartenuti al Paleolitico dell’intero bacino del Mediterraneo.

Fortunatamente non tutti i reperti prelevati da tali giacimenti fossiliferi sono andati perduti ed oggi è possibile ammirare questi animali all’interno di moltissimi musei, come quello costruito a Catania, a Comiso, a Siracusa, ma anche a Padova, Ferrara, essendo persino possibile raggiungere altri paesi d’Europa per studiarne alcuni ritrovamenti.

Tutti noi però che abitiamo nel capoluogo possiamo andare direttamene al Gemmellaro per osservare gli esemplari montati presso la Sala degli Elefanti, che tra l’altro all’interno dei suoi magazzini conserva ancora un gran numero di reperti appartenuti alla Grotta dei Puntali che non sono stati mai studiati dopo la prima catalogazione, il campione più vasto e meglio conservato della specie Palaeoloxodon mnaidriensis.

Nuove scoperte possono quindi ancora essere realizzate, basta solo che uno dei tanti laureati in scienze naturali o geologia delle università siciliane dimostri di avere la stessa passione alla paleontologia dimostrata da Gaetano Giorgio Gemmellaro e dalle attuali curatrici del museo.
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