ITINERARI E LUOGHI
A due passi da Trapani ci sono "Le Forche": verità nascoste tra miti, storia e leggende
Tante idee, ipotesi e pochi riscontri. Passano gli anni e il mistero delle Forche rimane un segreto irrisolto. Cosa si sa (o si suppone) sulla storia di questi luoghi
"Le Forche" a Castelvetrano
Venne costruito il Vicaria Nova in sostituzione di (li carceri vecchi). Da quel momento Castelvetrano ebbe la presenza di alcuni edifici adibiti come strutture “di condanna” per i detenuti.
Nella certezza dei documenti scritti, il panorama territoriale offre uno spunto di riflessione nonché luogo dove aleggia tanto mistero. Il suo nome è “Le Forche”.
Situato su un colle (a metri 107 di altezza), i ruderi nascondono fatti e ipotesi mai riscontrati. L’ambiente circostante è fantastico per la presenza della diga Delia (lago Trinità) ed è accessibile a tutti.
Dal paese si raggiunge l’area attrezzata di Marcita-Trinità e poi, si prosegue verso la diga. Una volta raggiunta la stessa, si percorre la statale (ex strada della Montagna) che porta a Madonna Bona (o Buona).
Un carcere (presumibilmente) utilizzato a partire dal Seicento. La vita dei condannati era molto dura in quel periodo. Un proverbio siciliano esclamava: “Megghiu n’galera a vucari lu rimu, chi carzaratu a Castedduvitranu”. La tortura era una delle caratteristiche principali e spesso, sfociava nel taglio di una o entrambe le mani o la condanna definitiva alla morte. Per alcuni reati commessi erano utilizzate le corde come mezzo di supplizio.
Erano delle barbarie inaudite per indurre i condannati a confessare anche quei reati non commessi. Gli strumenti erano costituiti da una trave di legno, una carrucola, un laccio resistente e pendente che rappresentavano l’asse di uno strumento usato continuamente.
Per coloro che erano destinati alla morte il processo iniziava alcuni giorni prima dell’esecuzione al patibolo. Era consuetudine citare dei proverbi sulle morti annunciate. Tra i tanti: “Aviri tri ghiorna di tempu comu lu ‘mpisu”. Un altro diceva: “Ed è lu ‘mpisu chi avi tri ghiorna di tempu!”. Inoltre: “Nta la casa di lu ‘mpisu nun si po appenniri un agghialoru”.
Dietro la regia del Capitano di Giustizia e coadiuvato dal Governatore e Rettore della Compagnia dei Banchi, il giustiziato veniva “consolato” dal capo della cappella.
L’ordine di esecuzione veniva dato nei seguenti termini: “iste de (nome del giustiziando) suspendatur in furcis usque quo eius anima a corpore separetur et executio fiat in terra (comune dove avveniva l’esecuzione) et post executionem amputentur caput et manus et affigantur in cratta ferrea in carceribus”.
Un triste epilogo concluso dai due boia (soprano e sottano) che, incaricati dell'esecuzione, rendevano amara la “lenta processione”.
All’interno della città erano presenti altri luoghi teatri di esecuzione e per gli storici, la domanda è sorta spontanea: "Perché allontanarsi tanto dal centro cittadino?”.
La seconda tesi si concentra invece sulle difficoltà da parte dei delinquenti a fuggire da una struttura inespugnabile e isolata. Nelle mappe recenti la zona è ancora presente col nome “Le Forche”.
Circoscrive una serie di vecchi casolari utilizzati per gli allevamenti e mansioni di natura agricola. Nella collinetta giacciono i ruderi e, nel corso del tempo, sono crollate parte delle mura.
A circa 100 metri di distanza è visibile un abbeveratoio interessante. Non sono presenti date e potrebbe essere monito di studio. Tante idee, tesi proclamate e pochi riscontri. Passano gli anni e il mistero delle Forche rimane un segreto irrisolto.
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