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Tra i Nebrodi e i Peloritani c'è ancora un mulino ad acqua: produce grano ed emozioni

Il mulino di Mario in un borgo di pietra costruito nel Medioevo è l’unico attivo dei tre rimasti e lo è per merito delle sue cure amorevoli e la sua ostinazione

  • 20 dicembre 2020

Il mulino ad acqua del Borgo di pietra a Novara di Sicilia (foto di Fabio Messina)

Al confine tra i monti Peloritani e i Nebrodi, con una vista che nelle calde giornate d'estate permette di abbracciare le isole Eolie con lo sguardo, si trova Novara di Sicilia, uno dei borghi più belli d’Italia.

Famoso anche come il Borgo di pietra, il paese fu costruito nel Medioevo grazie ad abili scalpellini che usarono con maestria la pietra arenaria: un antico mestiere che continua a sopravvivere nelle mani aggraziate di pochissimi novaresi. Mario Affannato è uno di loro, anche se ormai dedica gran parte del suo tempo e della sua energia a far rivivere la magia del mulino ad acqua della sua famiglia, producendo farine di alta qualità da grani antichi siciliani.

Un tempo, di mulini ad acqua, ne esistevano quattordici in quest’area, tutti dislocati lungo il torrente di San Giorgio, di cui ovviamente sfruttavano l’acqua per azionarsi. Bisognava quindi stare attenti a non fare arrabbiare il mugnaio che stava più in alto perché, per dispetto, poteva deviare l’acqua e lasciare a secco gli altri. In questi casi, il più impavido partiva con zappa in spalla e andava a risolvere la questione: da qui, probabilmente, il detto "Di unni vegnu, vegnu du mu’auì" ("Da dove vengo, vengo dal mulino") per indicare chi vuole prendere a botte qualcuno.
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Il mulino di Mario, chiamato “Giorginaro”, è l’unico attivo dei tre rimasti, e lo è per merito delle sue cure amorevoli: basta parlare con lui per rendersene conto. D’altronde, è proprio grazie alla sua determinazione che oggi a Novara di Sicilia i piccoli agricoltori hanno ripreso a coltivare i grani antichi siciliani in campi che erano stati abbandonati e utilizzati soltanto per il pascolo.

Visitare il mulino è un po’ come entrare in luogo incantato dove il tempo sembra essersi fermato. Vi si accede da un cancelletto e una lunga discesa verde - fatta di alberi di noci, nespoli, gelsi e fichi d'india - accompagna la sensazione di ritornare in un passato dai ritmi lenti e completamente diversi da quelli a cui siamo ormai abituati.

Il 1690 è la data certa che campeggia all’ingresso, anche se in realtà il mulino potrebbe essere della fine del Trecento o degli inizi del Quattrocento. Non v’è certezza, ma è comunque affascinante pensare che uno strumento così antico possa ancora funzionare alla perfezione e che sia passato di padre in figlio fino ad arrivare a Mario.

Probabilmente proprio gli attrezzi utilizzati dai suoi avi per costruire le macine gli hanno permesso di imparare il mestiere di scalpellino: da bambino li usava per gioco, ma gli sono stati fondamentali per acquisire la manualità necessaria a lavorare la pietra. E per questo deve ringraziare il suo bisnonno Ugo. Era il gestore del mulino, che a quei tempi apparteneva a una delle tante famiglie nobili della zona, e nel 1860 lo acquistò inaugurando un periodo di grande attività per la produzione di farine locali.

Cento anni dopo, purtroppo, la crisi del settore agricolo portò alla chiusura dei quattordici mulini del paese, uno dopo l’altro. Stessa sorte toccò al “Giorginaro”, una scelta dolorosa che la famiglia Affannato prese nonostante il legame profondo con quel luogo: «Mio padre è scresciuto qui, a volte perfino ci dormiva insieme a mio nonno» – racconta lo scalpellino - «E per mio nonno era la sua stessa vita. Pensa che durante la guerra, quando le truppe tedesche sequestrarono il grano,andava di nascosto al mulino a macinarlo per non lasciare affamate le persone del paese».
Nel 2001 Mario decise quindi di riaprirlo come semplice museo: non si macinava e non si produceva nulla. Ancora per poco, però. Il suo desiderio, infatti, era di fare rivivere quel posto e quello strumento che nei secoli aveva sfamato le bocche di tanti. E così fu.

All’inizio suo padre non era convinto, forse un po' «per gelosia di un luogo che sentiva tutto suo», ma l’ostinazione e la passione di Mario sono state più forti e, dal 2006, è finalmente riuscito a dare una nuova anima al mulino facendo ripartire la produzione e la molitura, tra l’altro proprio con i metodi tradizionali.

«La mia più grande soddisfazione è stata quando mio padre, con le lacrime agli occhi, mi ha detto "si un santu m'avissi dittu chi ntà vicchiaia avissi turnadu a fa'u muiau nun ci avissi credudu” (“se un santo mi avesse detto che nella vecchiaia sarei tornato a fare il mugnaio non ci avrei creduto”)» racconta emozionato.

Adesso il mulino è nuovamente «un luogo col cuore», dove il profumo della farina rivive insieme al suono dolce dell’acqua che scorre. Regalatevi una giornata d’altri tempi: Mario sarà felice di accogliervi e mostrarvi questa magia.
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