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Per le strade di Termini era un via vai di teglie volanti: la Favazza e la "nuttata ra Madonna"

Sembra Sfincione ma non lo è. È un prodotto semplice che ha un’antica tradizione culinaria. Vi raccontiamo la sua storia e lo chef termitano, Angelo Pusateri, ci spiega come si prepara

Roberto Tedesco
Architetto, giornalista e altro
  • 3 dicembre 2021

La Favazza (foto di Daniele Marsala)

Si chiama la “Favazza Termitana” ed è un prodotto semplice che ha un’antica tradizione culinaria.

Le donne, un tempo, la preparavano a “nuttata ra Madonna”, e in particolare la sera che precedeva la festa dell’Immacolata Concezione dell’8 dicembre.

Gli ingredienti della Favazza sono semplici e in grado di sprigionare profumi e sapori insuperabili. L’etimologia del nome “Favazza” ci riporta tra il XVI e il XVII secolo, quando Termini Imerese intratteneva rapporti commerciali con la Liguria e in particolare con Genova. Forse non è una coincidenza che proprio in quei secoli, nella città delle Terme, esisteva una numerosa comunità ligure dedita principalmente al commercio. Tra questi ricordiamo i genitori del pittore Vincenzo La Barbera, considerato il rappresentante più importanti del tardo manierismo siciliano.

Sembra che sia stata questa comunità a importare tale prodotto gastronomico in città. Infatti già nel XVI secolo, nel capoluogo ligure, si consumava un impasto cotto a forno il cui nome, ancora oggi, in dialetto genovese è la “Fugassa”: una focaccia semplice ma saporita, alta circa due centimetri, che raggiunge un ottimo equilibrio tra croccantezza e morbidezza.
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Nella città delle Terme questa pietanza si trasforma, grazie all’impasto di farine locali, e all’aggiunta dei prodotti tipici locali, riuscendo a unire la tradizione contadina con quella della marineria.

Abbiamo chiesto allo chef termitano, Angelo Pusateri, come si prepara la Favazza Termitana, nella speranza che ci riveli qualche suo segreto.

«È un pane pizza molto semplice da realizzare, purché si utilizzano gli ingredienti del nostro territorio. Si inizia con la farina di grano nostrano, poi si aggiunge acqua, olio, sale e quel pizzico di lievito necessario, per far “sofficizzare” la pasta. Dopo aver steso l’impasto, già lievitato, nella teglia si procede con il condimento costituito principalmente da pomodoro rosso, che deve essere rigorosamente maturo, acciuga salata, tocchettini caciocavallo, oltre a quello grattugiato, un po' di origano e per finire la cipolla scalogna, per intenderci quella fine e lunga, tipica del nostro territorio, e facilmente reperibile tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre.

Dobbiamo utilizzare la parte terminale della cipolla, cioè quella di colore biancastra che risulta la più saporita. Quest’ultima non va rosolata ma va messa a crudo prima di infornare insieme con le olive. Ovviamente l’olio deve essere quello nostrano extravergine.»

Un tempo era una grande festa, un rito tra il sacro e il profano dove tutta la famiglia veniva coinvolta durante le fasi di preparazione. Gli uomini erano gli addetti al recupero della legna per il forno e dovevano “tenere il fuoco alla giusta temperatura”, compito fondamentale per la riuscita di un’ottima “Favazza”. Le donne, quelle più anziane ed esperte, preparavano l’impasto a mano, mentre le più giovani, si preoccupavano della cosiddetta “conza degli ingredienti”.

L’uscita della teglia dal forno era il momento più suggestivo. Appena fuori si “spolverava” l’origano, che si doveva mettere a “crudo” per non far perdere le proprietà naturali, poi si aggiungeva un filo d’olio e infine ancora il caciocavallo questa volta grattugiato.

Per gli anziani la Favazza rievoca ricordi indelebili che spesso vengono accompagnati da dettagli, come quello di coprire la teglia, appena uscita dal forno, con una coperta di lana per non far disperdere il calore e il profumo.

Per chi non possedeva un forno in casa non era un problema. Al rito della preparazione della Favazza non si poteva rinunciare! Infatti, tutti i forni della città erano soliti offrire un “speciale servizio” di solo cottura. In quei giorni le vie della città, poco dopo l’imbrunire, diventavano un via vai di teglie “volanti” che a tutta velocità giungevano in ogni casa.

Quel profumo, ricorda qualche anziano, oggi non esiste più; anche se da alcuni anni, su iniziativa di un gruppo di associazioni termitane, si organizza una sagra dedicata alla Favazza. Una bella iniziativa che intende rievocare un’antica tradizione che esalta i prodotti del territorio terminato.

“Solo apparentemente marginale, nella geografia dei cibi di strada siciliani, quasi neonato e pallido riflesso del più blasonato sfincione (nelle due versioni palermitana e bagherese)” afferma Rosario Ribbene, giornalista, studioso di gastronomia siciliana e autore di un libro dal titolo “Pani ca’ meusa. La cucina di strada in Sicilia”, edito da Marcello Clausi nel 2017, “il nostro saporito scrigno gastronomico mostra una sorprendente carta d’identità: anagraficamente la Favazza Termitana riesce a spostare le lancette indietro nel tempo - adombrando la quasi totalità delle pietanze di strada dell’Isola, tenuto conto dei focolari himeresi – mentre dà sfoggio di un carattere unico capace di esprimere le sapienti vocazioni produttive locali, dalla cipolla, ai pomidori, ai formaggi, alle acciughe, all’olio nuovo. Alcuni di questi prodotti sono figli dell’autunno, a giusto titolo collocati nel parterre del condimento di questa saporita pietanza.”

La Favazza Termitana nel novembre del 2018 ha iniziato un percorso di istituzione della certificazione De.Ce (denominazione comunale d’origine) grazie all’iniziativa dell’associazione Rodoarte - onlus che ha coinvolto numerose realtà associative al fine del riconoscimento di questa antica pietanza alimentare.
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