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"Du majali non si jetta nenti": grasso e nutriente lo Zuzzu catanese va servito freddo

Le macellerie locali, note anche come "i chianchi", non ne sono mai sprovviste; anzi, le quantità abbondano e continuano ad essere richieste dai consumatori soddisfacendone il palato

  • 4 gennaio 2022

Zuzzu catanese (Foto dalla pagina fb di Catania street food)

Come molti sapranno, Catania custodisce un repertorio culinario che ancora oggi risulta essere parte integrante della tradizione locale. Sicuramente, tra le specialità più diffuse rientra il cosiddetto “zuzzu”. Trattasi di una bontà particolarmente apprezzata persino in alcune parti della Campania e della Calabria; di consistenza grassa e nutriente, non sarebbe altro che la gelatina di maiale. Ogni volta che lo si pone sopra la tavola riaffiora alla memoria un antico detto: “du majali non si jetta nenti”.

La frase, riprodotta in altri termini, equivarrebbe a dire che “ del maiale non si butta niente”. Per prepararlo si utilizzano le orecchie, le zampe, la coda, la cotenna e la lingua. Esse vengono lessate insieme in una pentola d’acqua per circa un paio d’ore; viene pure introdotta una foglia d’alloro e, in aggiunta, una buona quantità di sale. In questa fase è importante rimuovere una parte della schiuma che viene prodotta dal grasso della carne. Dopo la cottura si taglia la “carnuzza” e, al contempo, si eliminano le ossa; il brodo che ne deriva, invece, si tiene sul fuoco con l’aggiunta di aceto e limone.
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In via successiva si procede con il versamento del brodino sulla carne insaporendola con chiodi di garofano, pepe o altri aromi. In ultimo, si conserva in frigo facendolo riposare per circa cinque ore. Il risultato conseguito è l’ottenimento di una prelibatezza gustosa e saporita che allieta da secoli il Natale isolano. Di grande notorietà, in vari luoghi reca l’appellativo di “sùzu” o “liatìna”; quest’ultimo termine allude fedelmente alla variante “gelatina”.

Nel dialetto siciliano, di converso, zuzzu rimanderebbe all’aggettivo “zozzo" tale parola indica ciò che è unto, ricco e gustoso. Tuttavia, è opinione comune credere che abbia un corrispettivo etimologico anche nella lingua latina: si tratta di “sucidus” che, tradotto letteralmente, assume il significato di “avere le mani imbrattate di sangue”.

L’espressione sottintende il momento in cui viene ucciso il maiale e il quantitativo di carne che se ne ricava; in particolare, farebbe riferimento a colui che si sporca del sangue dell’animale attraverso la sua uccisione e macellazione.

Secondo le fonti storiche, la preparazione di questo piatto trae origine da un antico ricettario risalente al “Regno delle Due Sicilie". A riprova di siffatta notizia è la sua diffusione non solo nel capoluogo etneo, ma anche nell’intero sud Italia.

Sul “culto della carne di maiale” fioccano delle testimonianze raccontate dalle nostre nonne: tanto per citarne qualcuna, a quanto pare, un tempo era prassi ordinaria fare ingrassare il maiale in vista dell’arrivo delle festività natalizie e pasquali.

Oltre a ciò si tramanda pure che, poco prima dei giorni festivi, la gente era solita fare la seguente domanda: “Beddu chi mi lassi pi Natali?”Probabilmente, codesta usanza esprimeva l’importanza simbolica che il maiale rivestiva e incarnava nell’immaginario popolare dell’epoca. Non stupisce, dunque, che tuttora sia abitudine condivisa riunirsi con le proprie famiglie e arrostire allegramente una gran varietà di carni suine: salsicce, costolette, puntine e tanto altro.

Sebbene preparata in modo differente, la gelatina gode della medesima fama venendo particolarmente consumata durante il periodo invernale e, soprattutto, nel corso delle varie ricorrenze. Le macellerie locali, note anche come “i chianchi”, non ne sono mai sprovviste; anzi, le quantità abbondano e continuano ad essere richieste dai consumatori soddisfacendone il palato. In molti sono davvero ghiotti di questa “leccornia”, abbastanza facile da preparare.

Dal sapore delizioso, inoltre, viene servita fredda e conservata al fresco in un luogo poco esposto ai raggi solari.
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