MISTERI E LEGGENDE
Il fetente, lo spasimante e Lucia: perché il 13 dicembre si celebrano una Santa e l'arancina
È Santa Lucia e il "giorno delle arancine". Per spiegarne la storia dobbiamo partire da molto lontano. Protagonisti panelle, cuccìa, arancine e biochetasi a tignité
"Santa Lucia condotta al martirio" nel dipinto di Pietro Novelli (XVII sec)
No, non è la trama di un libro di Sthephen King, è il 13 dicembre a Palermo, nonché Santa Lucia, il giorno delle arancine. Già, ma perché in Sicilia il 13 dicembre succede tutto questo? Per spiegarlo dobbiamo partire da molto, molto, lontano.
Tutto inizia nel 300 d.C. La Sicilia è sotto dominazione romana e sono passati circa cinquant’anni dal martirio di Sant’Agata e ne mancano precisamente ventiquattro quando l’imperatore Costantino renderà il cristianesimo la sua religione preferita.
Fino a quel momento, però, tra i vari imperatori di Roma che si spartivano il comando, perché l’Impero Romano era troppo grosso, c’era pure un grandissimo fetente che, tipo come i giocatori brasiliani, aveva centocinquanta nomi ma tutti lo conoscevano con quello di Diocleziano.
Tre cose piacevano a Diocleziano: comandare, farsi fare statue a sua immagine e somiglianza e perseguitare i cristiani perché, oramai, non c’era città dell’impero romano dove non si trovava un antenato di Beppe Grillo che faceva sempre macello con sta cosa di porgere l’altra guancia.
E mentre Diocleziano si faceva il sangue acqua per questi cristiani e santiava (santificava) le divinità pagane dalla mattina alla sera, a Siracusa, una bellissima fanciulla di nome Lucia faceva perdere la testa a tutti i meglio giovanotti. Non c’era esemplare di masculo siculo che non cercava di catturare le sue attenzioni: chi gli regalava Baci Perugina, chi le dedicava canzoni neomelodiche, chi si indebitava per comprarsi la biga nuova e poi manco aveva i soldi per lo scecco (asino).
Purtroppo per loro ella era di nobile famiglia, aveva tutto, e nemmeno li calcolava di striscio. In verità, quello che premeva a Lucia era la salute di sua madre Eutichia (ma che nome è Eutichia?). Per questo motivo, un giorno, Lucia la portò in pellegrinaggio a Catania al sepolcro di Sant’Agata per chiedere la grazia.
Quando arrivarono, il 5 febbraio del 301 d.C., Lucia si mise a pregare così intensamente, ma così intensamente, che, forse stanca dal viaggio, s’addormentò e la santa le venne in sogno: “Figlia mia”, le disse sant’Agata, “ma che nome porta tua madre? Che nome è Eutichia? Appena incoccio tuo nonno che passeggia per il paradiso dalla mattina alla sera (perché ci colpa lui) ci penso io ci penso!”.
E Luicia rispose: “Sant’Agata, mamma ha una malattia incurabile...”, e la Santa “Ma quale incurabile e incurabile, tua madre la malattia se la prese per colpa di questo nome che porta. Comunque - continuò la Santa - ti potevi risparmiare questa bella camminata perché i miracoli da ora in poi li puoi fare pure tu. Quello che sono io per Catania, lo sarai tu per Siracusa”.
Sim Salabim e la madre di Lucia guarì veramente. Lucia poveretta non poteva credere ai suoi occhi. E, per rendere grazia al miracolo avvenuto, decise di consacrare tutta la sua esistenza al Signore. Si spogliò delle ricchezze, si spogliò dei suoi abiti, e cominciò a vivere per tre anni di fila tra poveri, miserabili e malati.
Questa decisione per il padre di Lucia fu dolorosissima: «Tutti gli altri hanno i figli drogati e scansafatiche, e a me giusto giusto mi è capitata quella comunista!». E siccome non c’è santa che la testa non gliela facevano tanta, spunta nella storia uno spasimante stalker di Lucia, di cui non sappiamo il nome ma che per comodità chiameremo don Rodrigo, che accecato d’amore la denuncerà come cristiana perché: o lui o nessuno!
Diocleziano intanto era diventato tutto un tic per i forti nervi e aveva inasprito la persecuzione contro i cristiani. Lunghi furono gli interrogatori, ma ogni volta che Pascasio, il prefetto, faceva qualche domanda per cercare di riportarla su suoi passi Lucia se ne usciva con sparate alla Jim Morrison del tipo: “il corpo si contamina solo se l’anima acconsente”.
C’è da dire che la risposta della povera Lucia in realtà fu una frecciatina all’usanza che toccava a tutte le cristiane che non volevano ravvedersi: venivano lasciate nei postriboli (case d’appuntamento del tempo). Provarono quindi a portacela di peso ma per via di un miracolo il suo corpo divento così pesante che nemmeno decine di uomini riuscirono a spostarla. L’accusarono perciò di stregoneria, la cosparsero di olio e cercarono di torturarla ma pure qua niente (il fuoco non la sfiorava).
Constatata la sua invincibilità, non restò che finirla attraverso la decapitazione (anche se altre fonti parlano di un coltello nella gola). Bella come il sole, buona come il pane (proprio lei il pane...) Lucia morì per mano di bestie alla tenera età di ventuno anni.
Per quanto riguarda la storia degli occhi cavati, vi devo dare una delusione, sembra essere priva di ogni fondamento. Il fatto è che Lucia, venendo considerata la protettrice della vista, fu spesso rappresentata da pittori postumi attraverso la macabra simbologia degli occhi sul piatto.
Quello che invece deve attirare la nostra attenzione è il legame con le arancine a Santa Lucia. Che ci crediate o no, anche questa volta, come molte cose che appartengono alla storia della Sicilia, ci colpa un viceré; o per meglio dire la solita scalogna che si portavano appresso certi viceré.
Nell’agosto 1644 si presenta a Palermo, Pietro Faxardo Zuniga y Requesens, marchese di Los Velez in veste di nuovo Viceré. Che la cosa non inizia nel migliore dei modi lo si capisce dal fatto che manco mette piede in Sicilia, muore papa Urbano VIII, e deve ripartire.
Due anni dopo, visto che parlavamo di fortuna, c’è una violenta carestia, scoppia il Viva Maria e la solita tiritera: il prezzo del pane, la fame, i nobili che si vendono il grano fuori; insomma sempre le stesse cose. Il viceré dal forte stress era ridotto peggio di Diocleziano: tic, tricotillomania, insonnia, gastrite nervosa.
Per sua grande fortuna, però, il 13 dicembre del 1646, mentre la fame sbummichiava della bella, arriva al porto di Palermo una nave piena piena di grano. Dalla potente fame, perché la gente si mangiava pure i calli delle mani, nessuno aspettò che il grano fosse macinato e reso farina.
Dal quel giorno panelle, cuccìa, arancine (e biochetasi) a tignité ("A tignitè" per i palermitani è una misura di grandezza imprecisata che va oltre ogni previsione).
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