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Si crede un critico culinario ma ti fa "passari u pitittu": come riconoscerlo (ed evitarlo)

Una piccola guida al personaggio tipico che si può trovare a tavola. I comportamenti, le puntualizzazioni e le "malefiure" che puoi fare al ristorante

Alessandro Panno
Appassionato di sicilianità
  • 17 novembre 2022

Forse sono un nostalgico, lo ammetto, ma ogni tanto mi vengono in mente i bucolici pranzi a casa di mia nonna quando, nonostante le sue origini del nord Italia, aveva imparato a fare alla perfezione la pasta “u furnu” arricchendola addirittura (cosa non facile), con nuove varianti.

Con petitto da lapardeo ed armato di forchetta, sferravo attacchi multipli e su più fronti alla porzione mentre mio nonno, tistiando, r’ammucciuni ai miei genitori, mi diluiva un dito di vino in un bicchiere d’ acqua e mia nonna sorridendo, mi diceva “te prù figgeu? Pittà la moae, pittà!” (sappiate che non avete appena letto uno stralcio del Necronomicon, ma trattasi di dialetto genovese).

Tempi che furono, quando ci si sedeva a tavola per pistiare e levarsi il testale, e non per disquisire di menù, filiera agroalimentare e allestire studi fotografici per immortalare una chips di cocuzza croccante su letto di vellutata di rucola .

Purtroppamente, volenti o dolenti, tutti noi abbiamo avuto a che fare, anche solo per caso, con il critico/a culinario fai da te, da ora in poi definito per comodità, semplicemente il critico/a. Li vedi con quel loro sguardo indagatore che manco un ispettore dei NAS, osservano la mise en place, tastano tra indice e pollice il tovagliato per capire esattamente se si tratta di vero cotone o fibra sintetica e prendono le misure per vedere se il triangolo piatto-posate-bicchieri ha le giuste proporzioni.
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Appena seduti cercano, mentre sei già immerso nella lettura del menù, di coinvolgerti nel loro entusiasmo. "ma ora si usano i runner!”. Alzi lo sguardo dal menù, indeciso tra la pizza con tutto sopra e i rigatoni all’ingrasciata con capoliato di suino incazzato, e gli fai notare che in realtà si sono appena seduti all’ osteria ru zu Tano e che insomma, già c’ha diri grazie se c’è a tuvagghia in capu u tavolo.

E che comunque, tu, l’unica volta che hai sentito parlare di runner, è stato quando, per smaltire la mafalda con milinciana fritta e caciocavallo e Forst atturrata per sgrasciare (che ti eri ammuccato due giorni prima) eri andato, in preda ai sensi di colpa e ruttando come uno scaricatore, allo stadio a correre e, tra un gorgoglio ed un affanno, avevi sentito parlare tra loro due tizi fisicatissimi a cui avevi indirizzato tutta la tua invidia.

In realtà il critico/a, spesso, ha delle competenze in merito ed è veramente alla ricerca della qualità, massimo rispetto, ma tu, uomo del marciapiede spesso non hai la minima idea degli argomenti di cui sta trattando.Per loro, mangiare fuori, è prima di tutto un’esperienza che deve darti emozioni anche se tu , molto più semplicemente, pensi sia perchè la lagnusia ti mancia l’ossa e ti siddia cucinare.

Archiviato il capitolo tovagliato e mise en palce, lo sguardo cade sulla punta del coltello posato alla destra. "Questo coltello è sporco..."- Tutti si mettono a cercare questo sporco residuale, invisibile agli occhi di un comune mortale.

In controluce, in penombra, si usa una lampada ultravioletta, nulla, questa macchia non si trova. Solo un ricercatore universitario che si trova lì per caso ed ha con se un microscopio ad emissione riesce a scovare numero 3 atomi di carbonato di calcio che si, in effetti potrebbero alterare il gusto del vino della casa ed attentare gravemente alla salute del cosumatore.

Ma la vera apocalisse inizierà quando il cameriere, che ha ormai consegnato in cucina una foto del critico/a raccomandando un “trattamento speciale”, si avvicinerà al tavolo per sapere se si è pronti ad ordinare.. “Lei cosa prende?” rivolto al critico/a, “...il menù è lungo... come fate ad assicurare la qualità di tutte le pietanze?”, “Guardi c’è un’intera brigata di cuochi..”,”Ah...non avete chef? Solo cuochi?”.

A quel punto la pelle del cameriere comincia a virare spaventosamente verso il color verde Hulk accompagnandosi ad uno sguardo da Berserk psicopatico. “Ma la tuma contenuta in questo involtino di suino nero dei Nebrodi allevato ad un’altitudine minima di 1200 metri che si nutre esclusivmente di ghiande bio ed acqua di sorgente è fatta dal latte munto delle capre sicane nella valle dello Jato con lo zoccolo triforcuto?”.

Se siete fortunati, al momento di scegliere i beveraggi, il critico/a dirà al cameriere che si affida al loro sommelier, ma se non lo siete proprio quando state per pronunciare allegri “una birra atturrata ra bella!!!” lui/lei chiederà la carta dei vini. Mentre tutti, per la fame, saranno al terzo cestino di pane e/o grissini, sceglierà la bottiglia più costosa dalla carta attirando le maledizioni di tutti.

Farà versare il vino, metterà il bicchiere contro il lampadario storcendo il naso perchè ha visto altri due atomi di carbonato di calcio che gli erano sfuggiti prima, annuserà, farà roteare il bicchiere, assaggerà, farà un gargarismon schioccherà la lingua ed alla fine con aria di sufficienza affermerà che non è come il (nome di vino tischitoski a scelta) ma è accettabile....".

Anche qui ammiri la competenza e riconosci che tu non sapresti rinoscere il vino della casa da quello fatto con i kit in polvere, però vorresti lo stesso andare al sodo. Finalmente arrivano i piatti e comicia la performarce fotografica. Piatto di traverso per ottenere una migliore luce, tavagliolo davanti il flash per non alterare i colori, decollo di un mini drone da borsetta/tasca per fare una panoramica dall’ alto.

Alla fine del book fotografico assaggia la pietanza. Capisce subito che la pasta non è trafilata al platino come si aspettava e che, cavolo, lo sapeva che il datterino non era quello della zona 1 di Pachino. Il filetto non ha una cottura lunga ma al sangue senza umori ma con una reazione di Maillard poco accennata, e si sente che il taglio non è stato eseguito accompagnando il verso delle fibre del tessuto muscolare.

Nel frattempo u pitittu ti sta facennu acito, ma nel momento in cui guardi il piatto noti che i 5 paccheri vegani sono adagiati sul piatto, decorato con una spruzzata di terra di basilico, in un incastro perfetto che manco quando giochi al Jeenga, accompagnati da una spuma molecolare di melenzane nere sposate con petali di ricotta salata fatta essicare in fuscelle di paglia bio, e pensi che in fondo in fondo alcuni ristoranti forse se li meritano i critici degli scafazzati.
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