AMAZING (DIS)GRACE
La Pasqua dei siciliani al Nord: fra anelletti e abbracci che (quest'anno) non ci sono più
I ricordi delle feste di paese, l'aereo che atterra a Milano con i genitori e il cesto delle cose buone da mangiare: ciò che speriamo di recuperare al più presto
foto Pixbay
Un volo cancellato. La magia svanita di aprire insieme un uovo di cioccolata, esattamente come quando ero una bambina. E poi la curiosità, che quest'anno mancherà, di capirne la sorpresa, montare il gioco e regalarlo a mia nipote. Tutto cancellato, quest'anno. Sarà una videochiamata su WhatsApp - durante la domenica di Pasqua – lo strumento con cui cercheremo di colmare le nostre distanze.
Io a Milano, mia sorella maggiore dall'altra parte della città, a più di tre quarti d'ora di strada. Mia sorella minore tra le corsie dell'ospedale di Gela, a fare i conti con la paura di trovarsi faccia a faccia con il virus. I miei genitori nel nostro paese d'infanzia, quello dove – da bambine - attendevamo la Pasqua già dal venerdì santo.
Ci svegliavamo presto per andare, con nostra madre, nelle quattro chiese del paese per adorare la statua di Gesù Crocifisso. E si doveva far presto perché alle 11, con una processione, una delle quattro statue – la più grande - sarebbe stata portata al Calvario. Cioè in quel luogo proprio all'ingresso del paese dove con gli amici, la sera tardi, si andava a correre con le auto sfidando la paura delle curve a gomito, nell'incoscienza sfrenata della giovinezza e con la felicità per una patente in tasca, appena presa.
Il paese cadeva nel silenzio fino a sabato notte. I più fedeli andavano alla veglia, rimanendo svegli fino alle sei del mattino. Ricordo di avere sfidato anche io, una volta – durante l'adolescenza - il sonno e la stanchezza. Ricordo poi di avere marinato, crescendo, quasi tutte le messe, compresa quella di Pasqua.
Non sono mai stata una cattolica praticamente ma nel cristianesimo riconosco le radici della mia identità. Non sto qui a dibattere su come sia giusto credere, dimostrare fede, e se sia moralmente giusto o meno andare ogni domenica in Chiesa.
Penso che la religione, in fin dei conti, sia un fatto personale. Un fatto personale che in quel paese – come in ogni altro paese – diventa anche rito collettivo. E, di rimando, diventa anche un segno della nostra identità: una caratteristica che rende indimenticabile e facilmente identificabile un volto incrociato per strada.
Ma quest'anno non ci sarà nessun rito collettivo, nessun segno che mi farà ricordare chi sono, da dove vengo, dove sono nata.
Questa domenica di Pasqua - tenuta sotto scacco dal Coronavirus - la passeremo in videochiamata. Non ci sarà nessun aereo che il Venerdì Santo, come negli ultimi tre anni, sarà atterrato sul tardi a Malpensa per portare qui i miei genitori – insieme a tanti altri.
Non ci sarà quel pacco di anelletti infilato in valigia, per preparare la nostra pasta a forno preferita. I riti della mia identità li ho persi già tre anni fa, trasferendomi a Milano. E stavolta ho perso anche i riti della mia famiglia – che coincidono con i riti di tante altre famiglie.
L'uovo di Pasqua ce l'ho, però. Subito dopo il 9 marzo mi recai al supermercato per fare una mega spesa che mi avrebbe permesso di evitare frequenti uscite. E lo vidi lì: il solito uovo di cioccolata che i miei genitori compravano a noi figlie, nonostante ormai abbastanza grandi, prima in Sicilia e poi a Milano, subito dopo il loro atterraggio.
Lo scarterò da sola, in questa casa non mia, in questa città non mia ma in cui ho scelto di rimanere per sperare che tutto passi. Per resistere. Per tornare a splendere, ai piedi di una Madonna dorata o davanti un tramonto rossastro sui Navigli.
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