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Si diceva fosse potente e sconfiggesse tutti i mali: chi era Diana, "majara" di Monreale

Quando si parla di streghe, avvelenatrici e maghe, la Sicilia è caput mundi: ecco la storia di Diana la Viscùsa, fattucchiera che seminò il panico pure tra gli inquisitori

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 30 settembre 2023

"Una visita alla strega", di Edward Frederick Brewtnall, 1882

Quando si parla di avvelenatrici, streghe e donne di fora, la Sicilia è caput mundi. La vecchia dell’aceto con il suo misterioso veleno, Giulia Tofana con la sua micidiale acqua tòfana, Francesca la Sarda che lanciò un’ultima maledizione prima di essere giustiziata a piazza Marina che causò il crollo degli spalti e centinaia di morti.

Oddio, poi c’era pure mia zia Agatina che quando faceva il capretto aggrassato faceva venire la diarrea a mezza famiglia, ma quella è tutta un’altra storia. Comunque, grossomodo quelle che ho nominato sopra le conoscete un po' tutti perché se n’è scritto tanto, parlato tanto, sparlato ancora di più.

Ma se tutti o la maggior parte conoscete le sopraccitate, quasi nessuno invece ricorda Diana la Viscùsa, fattucchiera di Monreale che seminò il panico perfino dentro le carceri dell’Inquisizione… minchia!

«Ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai» dobbiamo fare necessariamente un piccolo salto nel passato, altrimenti sarebbe come cominciare "Beautiful" dalla puntata 7738 e volerci capire la trama.
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Ebbene, o meglio è male perché è il 1638 e in Europa c’è un bordello, dato che si sta combattendo la Guerra dei Trent’anni che vede contrapposti da un lato l’Impero Asburgico, Spagna, Stato Pontificio; dall’altro Boemia, Danimarca, Svezia e Inghilterra.

Come Papa abbiamo Urbano VIII che, dobbiamo dire le cose giuste, è uno che lo stipendio se lo suda: indice 8 giubilei, crea 9 congregazioni, emana 9 concessioni pontificie, ma soprattuto vieta di ridurre in schiavi gli indiani del Paraguay, del Brasile e delle Indie Occidentali e proibisce il tabacco da fiuto con la pena la scomunica e di fumare all’interno della Basilica di San Pietro e della Cattedrale di Siviglia, perché a quanto pare i cardinali si arricrìano a svampare alla tipo Bob Marley.

Se qualcuno svampa "tarzanelli" pure nelle nostre Cattedrali questo non lo sappiamo, la cosa certa è che a Palermo come arcivescovo abbiamo Giannettino Doria, che in quel momento vive un periodo da star poiché è lui a riconoscere le ossa di Santa Rosalia che salvano la Città dalla peste, mentre a Monreale teniamo il Cardinale Cosimo De Torres che, fan di Ponzio Pilato, se ne lava le mani e in quello stesso 1638 indice un sinodo diocesano in cui affida al Tribunale della Santa Inquisizione l’iter giudiziario per i crimini di fede commessi nel monrealese.

Fine atto primo, pigghiatevi un cafè e fumatevi ‘na sigaretta.

Atto secondo. Il 14 dicembre un certo Ioannis Barrali (che da adesso chiameremo Giovannino) viene convocato a deporre al tribunale ecclesiastico di Monreale contro la signora Diana detta la Viscusa. Il sospetto è quello di trovarsi al cospetto di una della più potenti e spietate fattucchiere della Sicilia.

Ora, trovarsi convocati per una cosa del genere non era proprio una bella cosa. Giovannino al massimo in caserma c’era andato per qualche multa di divieto di sosta con lo scecco o perché beccato pure lui a svampare nei pressi di Ballarò, perché lì abitava: quello della stregoneria era tutto un altro paio di maniche.

Giovannino non ha che fare e comincia a cantare. Tutto ha inizio il 15 luglio proprio, per la festa di Santa Rosalia, sua moglie comincia ad avere forti dolori, forti deliri e comincia a sparare minkiate a tinchitè. Francesca, si chiama la poveretta, peggiora di giorno in giorno passando da grasse risate a crisi di pianto mentre i dolori al petto e alla testa aumentano sempre di più.

I vicini di casa, che giustamente dai tempi dell’uomo delle caverne per deformazione professionale si devono fare i "kaiz" degli altri, si cominciano a preoccupare e suggeriscono una cura della nonna in voga in quegli anni. Tale cura prevedeva (non sto scherzando) che sua moglie venisse bastonata fino a che il male non fosse passato.

Gentilezza dei vicini a parte che giustamente si preoccupano, Giovannino, anche se tentato, non se la sente di intraprendere questa terapia.

Dunque, informandosi a destra e sinistra, va a scoppare a Monreale perché gli hanno parlato di una potentissima "majara" in grado di guarire qualsiasi male.

Diana li accoglie, gli offre magari un bicchiere di zibibbo, e si fa raccontare tutta la questione. Se ne va nel doppio servizio e si arrìcampa con una bacinella con l’acqua e un uovo sbattuto dentro: si chiama divinazione, lo fanno dai tempi dei sumeri, e serve per mettersi in contatto con entità ultraterrene.

«Ecco perché tutti si dolori! - fa Diana- a tua moglie le hanno fatto una majarìa» (una fattura). Diana a quel punto propone una cura al modico prezzo di 6 tarì, ma Giovannino le deve procurare vino, degli olii e delle erbe particolari che vanno cotte in un pentolone.

Ma quale guarire! Francesca ancora più minkiate col botto inizia a sparare a causa dei deliri. A quel punto Diana avanza un’altra tesi: «La fattura te l’hanno fatta con un feticcio e l’hanno nascosta nei pressi di casa tua».

«E quantu m’avi a custare?», pensa giustamente Giovannino.

Giunti a casa dei coniugi Barrali la fattucchiera si mette a scavare e trova un gatto morto con dentro della cera, prova che la majarìa c’è veramente. Si mette a pregare Diana, e come nel film "L’esorcista" a Francesca escono "certi cosi nigre" dalle parti pubiche (lo so, fa schifo ma è così). Si tratta di grumi di capelli con degli aghi conficcati. Si mettono a pregare tutti assieme, compresi i vicini accorsi.

Come andò a finire non lo sappiamo, meno male, ma questo racconto fu sufficiente per condannare Diana alla carcerazione presso l’ospedale di Santa Caterina di Monreale. Pare che le cose si dovevano quietare e invece continuò a combinare male minkiate anche in carcere terrorizzando le compagne di cella, che disperate chiesero di parlare con un inquisitore.

Una di queste, Caterina La Carbonara, raccontò di avere avuto la notizia della possibile morte del suo amico Bartolomeo. E siccome Whatsapp per mandar messaggi non c’era, si intromise Diana che ci avrebbe pensato lei.

Prima divise un rosario in tre parti, recitando una preghiera: «Se è vivo muoviti, sennò statti fermo!». Il rosario si mosse. Poi, per dare la prova del nove, fece pipì dentro un secchio, ci buttò dentro degli spilli e li mise a cucinare, tipo mia zia Agatina con il capretto aggrassato, pronunciando questa volta parole incomprensibili.

Anche questo secondo tentativo diede conferma che Bartolomeo era vivo. «Cu si’nni futti di Bartolome…», pensò - e mi pare normale - la spaventatissima Caterina, che per poco non si prendeva un infarto.

Questi scherzetti costarono a Diana un interrogatorio sotto tortura dove per forza di cose confessò di pratica la stregoneria. Ciò le procurò un inasprimento della pena, ma come finì la storia di Diana, un po’ come il verso del tacchino in Johnny Stecchino, non lo sa nessuno.
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