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Nel "Trionfo della Morte" è dipinto pure un selfie: verità e misteri dell'affresco siciliano

La storia di uno dei dipinti in assoluto più significativi di Sicilia e la sua attribuzione sembra la trama di un film di Dario Argento: ecco come andarono le cose

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 30 maggio 2020

Il "Trionfo della Morte" a palazzo Abatellis

«Ricordati che devi morire!» diceva il frate a Massimo Troisi in “Non ci resta che piangere”. «Come?», «Ricordati che devi morire!», «Va bene»; «Ricordati che devi morire!», ripeteva, «Si, si, mo’ me lo segno prorio.»

Ecco, il famosissimo “Trionfo della morte” aveva pressappoco la stessa funzione: far ricordare che la mietitrice non guarda in faccia nessuno. Fra tutti i misteri che avvolgono sta bella pittura, che poi a picca è quanto mezzo campo di calcetto, perché è 600x642 cm, quello più grande di tutti è: “ma chi schifìo l’ha fatto?”. Di tutte quelle cose successe a Palermo di cui si cerca ancora il responsabile, questa, sicuramente, è la più bella di tutte.

Gli studiosi si sono arraspati la testa attorno a tale questione per secoli: c’è chi lo attribuisce a un certo Vincenzo Romano, chi a uno che chiamavano Cingano, molti ad Antonio Crescenzio, uno addirittura fa il nome di Antonello da Messina, altri sono convinti che il pittore sia di origine catalana e, ogni tanto, spuntava pure Pippo Baudo e si metteva dire: “L’ho inventato io, l’ho inventato io!”.
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Poi, in mezzo a tutta questa confusione, esce fuori il nome di un noto pittore palermitano che si chiamava Gaspare De Pesaro (ora ci torniamo a questi De Pesaro).

All’inizio il “Trionfo della morte” non si trovava a Palazzo Abatellis, dove è custodito oggi, ma dentro l’Ospedale Grande, nonché il padre dell’attuale civico (perché la fondazione dell’odierno ospedale risale ad esso), ubicato proprio di fronte la chiesa di San Giovanni Decollato.

Quando la gente andava a trovare amici e parenti che erano ricoverati partivano mani a destra e sinistra (proprio a causa del dipinto) per scongiurare il macabro presagio: c’era chi la infilava dentro i pantaloni per tutte le ruote, chi si portava l’aglio nella borsetta e chi, con la scusa che aveva avuto una paresi, entrava esibendo un bel paio di corna che faceva scomparire solo dopo uscito. E come dargli torto, lo avete mai guardato bene? Roba da film di Dario Argento!

La scena è ambientata in un giardino spettrale e riporta in primo piano uno scheletro (la morte) che cavalca un cavallo brutto come la fame, mentre alle sue spalle c’è un assembramento di trentaquattro persone: dieci donne e ventiquattro uomini. Di primo acchito lo scheletro, imbestialito, sembra prendersela con i festaioli in comitiva gridandogli: “dove ca… vai? Vattene a casa!”, un po’ come abbiamo visto fare in tempi di Covid.

Tuttavia, guardando meglio, la questione è leggermente più complessa anche se non totalmente distante. Erano tempi di peste quelli e, al contrario di quanto si possa pensare, la gente era abituata a vivere pensando che è meglio un giorno da leone che cento da pecora: non c’erano le misure sanitarie odierne, infatti il galateo prevedeva un bicchiere ogni due/tre commensali, gli scarti si buttavano sotto il tavolo e l’unica posata che conoscevano era il coltello per tagliare la carne.

In buona sostanza se avevate le mani insivate e la bocca fatta d’uovo chi veniva dopo di voi si arricciava tutto. Tale figura mortifera, quella del dipinto si intende, avanza senza guardare in faccia alcuno; anzi, se la prende proprio con quelli vestiti meglio, con i parrini che implorano perdono di fronte al giudice imparziale, mentre i miserabili al grido di “Prendi me! Prendi me!”, rimangono a bocca asciutta come un neolaureato di fronte a un concorso pubblico.

Poi, a sinistra, nella posa di chi pensa “Nienti sacciu e nienti vogghiu sapiri”, ci sono pure due figure che guardano verso lo spettatore come a dire: “due sunnu i putenti: cu avi assai e cu unn’avi nienti". Quelli, secondo la storica dell’arte Geneviève Bresc-Bautier, dovrebbero essere proprio Gaspare de Pesaro e suo figlio Gugliemo che, in un attacco d’arte, hanno ben pensato di concedersi un selfie all’interno del loro stesso probabile dipinto.

Questi De Pesaro erano una famiglia di pittori che operava durante il XV sec. e avevano casa e bottega nel “curtugghiu affianchu Sancta Caterina”; in pratica al Cassaro, in prossimità del famoso monastero. Dipinsero tavole, croci, candelabri per la chiesa di San Domenico, le Cattedrali di Palermo, Monreale e Cefalù e il figlio, Guglielmo, si occupò della decorazione della statua del genio di Palermo (Palermo u nicu) che si trova tutt’oggi a piazzetta del Garraffo (Vucciria) in compagnia di qualche bottiglia di birra e ogni tanto, se gli va bene, gli arriva pure qualche stecca di stigghiola che si sparte col serpente.

Siccome si trovavano bene a lavorare con le chiese, i De Pesaro, cominciarono a spartire amici e parenti tra un convento e un altro di modo d’avere sempre una voce amica che gli commissioni un qualche lavoro. Il più grande capolavoro di Gugliemo, però, fu Giovannella, sua figlia, che diventò anche lei suora al Santa Caterina con il ruolo di Vicaria, dove già c’era la zia acquisita Margherita che tutti chiamavano Garita.

Un altro grande pittore, anche molti secoli dopo, ruota attorno al “Trionfo della morte”: Pablo Picasso. Forse vedendolo in foto - e ce lo racconta indirettamente Guttuso tramite il figlio adottivo Carapezza, che non è quello di “fuori dal tunnel” -, forse vedendolo di presenza, ne rimase così impressionato che, mi piace pensare, non resistette all’impeto di volerlo sfiorare con le dita fino a che il custode, cogliendolo in flagranza, lo rimproverò dicendogli: “Dove ca… vai? Vattene a casa!”.

Pablo Picasso se né tornò dunque a casa, o era già lì, e nel 1937 dipinse il celebre “Guernica” che si trova ancora oggi al “Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofìa” di Madrid. Per nostra grande fortuna o magari perché la mala erba non muore mai, il “Trionfo della morte” riuscì perfino a resistere ai bombardamenti del 1943 che danneggiarono il palazzo Sclafani. Come fu come non fu, lo uscirono sano ed oggi, dopo varie tiritere, si trova a Palazzo Abatellis dove basta farsi una bella passiata in zona “Marina” per gustarselo di presenza.
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