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“Sword in the Moon”: colpi di spada d’ordinaria amministrazione

  • 18 aprile 2005

"Sword in the Moon"
Corea del Sud 2004
Di Kim Ui-seok
Con Choi Min-soo, Cho Jaehyun, Kim Bo-kyung

«Se avete amato “Hero” e “La foresta dei pugnali volanti” impazzirete per questo film!»: questo è quanto riporta un annuncio pubblicitario in un quotidiano della città. Beh, andiamoci piano. “Sword in the moon” appartiene sì allo stesso genere delle ultime due opere di Zhang Yimou – il wuxiapian, cioè il “cappa e spada” orientale – ma se ne discosta tanto profondamente da poter essere collocato su una linea espressiva del tutto differente. E questo principalmente per due motivi. In primo luogo perché “Hero” e “La foresta dei pugnali volanti” non sono esattamente l’esempio più classico di wuxia, ma piuttosto una libera rivisitazione di questo genere in chiave autoriale, condotta su basi stilizzate ed estetizzanti; “Sword in the moon” è invece puro genere, gli occhi dello spettatore non colgono alcuno stile personale (non che questo sia di per sé un male). In secondo luogo, “Sword in the moon” non viene dalla Cina – storica patria del wuxia – ma dalla Corea del Sud, paese con una cinematografia ancora relativamente giovane che, se ha “cannibalizzato” con successo molti altri generi sino-giapponesi, come l’action o l’horror, è ancora alle prime armi in tema di cavalieri erranti.

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Ecco, “Sword in the moon” sconta una certa inesperienza, che tenta di superare rifacendosi ai canoni più classici, quali quelli dei film di King Hu, molto fisici, sanguinolenti e senza danze volanti. Qui, infatti, il sangue sgorga a fiumi, ed è tutto un tripudio di teste mozzate: niente di più distante dai balletti eterei “alla Hero”. Il vero problema piuttosto è che il risultato lascia un po’ freddini, ed è paragonabile a quello di un altro wuxia coreano, “Bichunmoo”, trasmesso di recente su Mtv, (anche se quest’ultimo risultava ancora più impersonale). La storia degli amici fraterni Ji-hwan (Cho Jaehyun) e Gyu-yeop (Choi Min-soo), allievi della scuola militare “Vento fresco, luna chiara”, che si scoprono nemici quando, durante un colpo di stato, il primo decide di rimanere nell’esercito imperiale mentre il secondo diventa un ribelle, non è proprio originalissima. Il tema dell’amicizia come valore supremo, da difendere al costo del sacrificio della vita, è affrontato in maniera accademica. Neanche le coreografie dei combattimenti, i costumi e la colonna sonora riescono ad elevarsi da una massa di produzioni che rischiano di sembrare tutte uguali. Consoliamoci pensando che ad agosto (sigh!) dovremmo vedere il vero wuxiapian dell’anno: “Seven Swords” di Tsui Hark.

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