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La “Samaritana” sui generis di Kim Ki-Duk

  • 21 giugno 2005

La Samaritana
Corea del Sud, 2004
Di Kim Ki-Duk
Con Kwak Ji-Min, Seo Min-Jeong, Lee Eol, Kwon Hyun-Min, Young Oh, Im Gyun-Ho, Lee Jong-Gil

Jae-yeong e Yeo-Jin sono due ragazzine unite da un legame inestinguibile e totale (anche fisico), proprio perché si completano a vicenda. Una è Vasumitra (prostituta indiana che trasformava chiunque venisse a letto con lei in un fervente buddista), l’altra è Samaria (la buona samaritana). Una persegue il precetto buddista di ricerca della felicità, l’altra subisce il senso di colpa cattolico trasmessogli dall’educazione paterna. La prima sorride alla vita, in qualunque circostanza; la seconda è astiosa, e per lo più piange. Jae-yeong si prostituisce, Yeo-Jin amministra, ma disapprova lo slancio vitalistico con cui l’amica si concede ai clienti. Una è lo yang, l’altra lo yin. Ma lo yin non può esistere senza yang. Così, quando Jae-yeong muore, sempre col sorriso sulle labbra, Yeo-Jin non ha altra scelta, se non quella di intraprendere lo stesso percorso dell’amica, ma “al rovescio”: andare a letto con gli stessi clienti e restituire a ciascuno la somma che avevano pagato. Un atto di carità nei confronti degli infelici. Una palingenesi, una rigenerazione purificatrice: l’unico modo per ritrovare il sorriso perso dell’amata. Dopo il successo riscosso anche in Italia da “Ferro 3”, la Mikado ha pensato bene di riscoprire Kim Ki-Duk, distribuendo (oddio, distribuire è una parola grossa, visto che mentre scrivo ci sono solo undici copie in tutto il Paese) anche la sua opera precedente, vincitrice dell’Orso d’argento al Festival di Berlino 2004. Ottima idea, anche perché chi ha amato “Ferro 3” ritroverà nella “Samaritana” le stesse suggestioni, la stessa essenzialità, la stessa abilità nel trattare tematiche forti e situazioni di violenza estrema con una levità e una semplicità sbalorditive.

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“La Samaritana” appartiene, infatti, all’ultimo periodo di Ki-Duk, (seguito peraltro da un altra opera ancora, “Hwal”, presentato allo scorso festival di Cannes), in cui il regista sud-coreano, pur riproponendo i temi a lui cari (l’amore vissuto solo nel dolore e nella perdita, l’incomunicabilità, la riflessione sullo sguardo), matura uno stile rarefatto, astratto, metaforico e soprattutto lirico. Diviso in tre episodi (Vasumitra, Samaria e Sonata), “La Samaritana” inizia splendidamente, e, grazie anche alle incredibili interpretazioni delle due protagoniste Kwak Ji-min e Seo Min-jeong, riesce con pochi dialoghi e molti sguardi a descrivere i moti dell’animo più impercettibili. Dopo una parte centrale un po’ in calo, in cui il padre di Yeo-Jin si mette a dare la caccia a tutti gli uomini con cui la figlia intrattiene rapporti, ci si abbandona a un finale splendido, pregno di simbologie fino alla saturazione, con certe atmosfere inquiete che ricordano molto “Simpathy for Mr. Vengeance” del coreano Park Chan-wook, volutamente aperto perché è, di fatto, un nuovo inizio. Trattare la questione della prostituzione minorile era una vera e propria sfida: Kim Ki-Duk la vince, riuscendo miracolosamente a evitare sia la morbosità sia il moralismo, ed elaborando al contempo una profonda riflessione esistenziale e religiosa. “La Samaritana”, pur non arrivando alle vette di “Ferro 3” in termini di valore immaginifico e qualità della composizione visiva, è comunque un altro dei tanti capolavori di Kim Ki-Duk, uno dei pochi grandi autori in grado di elaborare una poetica unica e autonoma nel cinema contemporaneo.

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