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"King Kong", il nuovo film-mostro di Hollywood

  • 16 gennaio 2006

King Kong
U.S.A., 2005
di Peter Jackson
con Naomi Watts, Jack Black, Adrien Brody, Andy Serkis, Jamie Bell, Kyle Chandler

Il gigantesco gorillone King Kong, che nel 1933 Ernerst B. Schoedsak e Merian C. Cooper portarono sugli schermi di tutto il mondo, è figlio della Grande Depressione, del fallimento nel New Deal roosveltiano e delle angosce di una generazione sopraffatta dalla paura e dalla crisi. Forse è per questa ragione che, come tutte le grandi figure archetipiche, torna a galla ciclicamente e ripiomba proprio in quest’epoca segnata da irrazionalità, caos e angosce terroristiche. L’imponente montagna nera che mette a ferro e fuoco New York e si staglia sull’Empire State Building fa ormai parte dell’immaginario collettivo ed è stata oggetto di infinite interpretazioni, riletture e analisi in chiave simbolica o freudiana. Anche questa versione di Peter Jackson, che dopo la trilogia del “Signore degli anelli” si getta senza pause in una nuova impresa mastodontica, è un piatto ghiotto per critici e studiosi in cerca di sottotesti politici, sessuali, psicanalitici e metacinematografici. Lo stesso Jackson sembra prenderci gusto, e ad un certo punto mette in mano ad un suo personaggio (un giovane mozzo che fa parte della spedizione alla volta di Skull Island, l’isola nativa di Kong) il libro “Cuore di tenebra”. Affascinante questa lettura parallela del capolavoro di Conrad – e quindi indirettamente del capolavoro di Coppola a lui ispirato – con gli eventi narrati nel film: in entrambi i casi i personaggi compiono un viaggio nella natura selvaggia e primitiva, che è anche un ritorno all’istinto atavico dell’animo umano, dove persistono ancora la violenza animale e le pulsioni primordiali.

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Kong come Kurtz (il protagonista del libro di Conrad)? Meglio non spingersi a tanto, ma il discorso dell’ufficiale Hayes in merito al mostro in noi che viene risvegliato, pare abbastanza esplicito. Più espliciti ancora sono i continui riferimenti al cinema e al mondo dello spettacolo (del resto il personaggio chiave, motore di tutta la storia, è proprio il regista Carl Denham, un chiaro alter ego di P.J., interpretato da Jack Black). Allora King Kong non sarebbe altri che la metafora di se stesso: il colosso-kolossal, il film-monstre, un abominio che si estende incontrollato per oltre tre ore, istintuale e disorganico, sconsiderato e illogico, puro istinto creativo che, imbrigliato per le volgari esigenze dello spettacolo commerciale, si ribella al regista, ma è destinato ad una brutta fine. In quest’opera di una vita (il regista è tormentato dall’ossessione di King Kong da quando aveva dodici anni) Jackson, che questa volta ha completa carta bianca, dà libero sfogo a ogni voglia infantile, girando più col cuore che con la testa, ragionando per accumulazioni ed esagerazioni (una serie infinita di creature mostruose accolgono i nostri nell’isola: dinosauri presi in prestito da “Jurassic Park”, insettoni carnivori, grosse sanguisughe, pipistrelli giganti). Il risultato è una parte centrale – del tutto nuova rispetto all’originale – che è un omaggio sia ai film d’avventura anni ’30, sia agli improbabili B-movies di fantascienza anni Cinquanta e Sessanta (“Viaggio al centro della terra”, “Il mondo perduto”, e così via), per non parlare dei kaiju eiga giapponesi (quelli con Godzilla per intenderci).

L’unico imperativo da seguire è la fascinazione del cinema («c’è rimasto ancora un po' di mistero a questo mondo, e possono goderne tutti. Al prezzo di un biglietto d'ingresso» è il motto di Denham) e ogni mezzo è buono per raggiungerla, che sia una cavalleria di brontosauri, un attacco di tre T-Rex contro King Kong, o un agguato tra le liane. Peccato che nelle parti restanti, prologo ed epilogo, il regista neozelandese si sia fatto prendere dalla stessa smania filologica che caratterizzava l’adattamento tolkeniano e abbia preferito la ricostruzione fedele e classicheggiante alla follia visionaria e sperimentatrice. A partire dagli Anni Trenta ricreati negli "studios", che sembrano un’illustrazione in appendice di un testo storico: in poche inquadrature c’è ficcato dentro tutto quello che lo spettatore tipo si immaginerebbe, dagli straccioni alle luccicanti insegne di Broadway, da Al Johnson agli operai che lavorano sui grattacieli. Dopo la trilogia del “Signore degli anelli”, film perfetti ma più freddi, Jackson partorisce un’opera decisamente squilibrata e imperfetta, ma calda e passionale (come i suoi primi film). Gli effetti speciali sono, com’era prevedibile, il massimo che la tecnologia può offrire in questo momento. L’eccezionale Andy Serkis (il Lon Chaney Jr. dei nostri tempi), dopo Gollum (l'inquietante mostriciattolo umanoide del "Signore degli anelli"), presta il corpo allo scimmione e trova anche il tempo per impersonare il cuoco di bordo dalla faccia alla Braccio di Ferro. Perfettamente calati nella parte anche un Jack Black dagli occhi saettanti e febbrili e una Naomi Watts da far invidia a Fay Wray, altra interprete nello stesso ruolo dello storico film del "33.

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