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“Fantascienza al vapore” con anima antimilitarista

  • 6 giugno 2005

Steamboy
Giappone 2004
di Katsuhiro Otomo

Finalmente, grazie alla “Metacinema”, arriva anche in Italia questo gioiellino dell’animazione giapponese, sebbene in una versione ridotta di circa venti minuti per volontà dello stesso regista. Con “Steamboy” Katsuhiro Otomo passa dal cyberpunk di “Akira” allo steampunk appunto, ovvero a quel filone di “fantascienza retrò” ambientato solitamente in un XIX secolo che pullula di marchingegni avveniristici, ma rigorosamente alimentati a vapore. Qui, tra paesaggi che non hanno nulla da invidiare a un John Constable o a un Joseph Turner, tra scorci londinesi che vivificano l’immaginario di tanti romanzi classici, lo spettatore è proiettato in un’epoca in cui lo spirito imperialista vittoriano e i successi della seconda rivoluzione industriale sembravano suggerire agli uomini che scienza e progresso non avrebbero più conosciuto freni. Ci troveremmo di fronte a una precisissima ricostruzione storiografica, se all’improvviso, magari sul Tamigi, o nei pressi del Big Ben, non irrompessero dallo schermo motocicli a vapore, veicoli da trasporto che non hanno bisogno di rotaie, macchine da volo simili a quelle disegnate da Leonardo, cavalieri meccanici (Ottocento, più Medioevo, più Futuro: se non è post-moderno questo!) e molto altro ancora. Se gli appassionati di congegni meccanici rimarranno letteralmente senza fiato (il mecha design è ai massimi livelli: precisissimo, realistico, eppure fantasioso e visionario), anche dal punto di vista narrativo non si resta delusi.

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La storia del piccolo Ray Steam, capitato per caso in mezzo ad una guerra per il controllo della tecnologia che vede schierati da una parte il potere economico (la “Ohara Foundation”, gigantesca industria bellica) e dall’altra quello politico (Il governo britannico, che vuole assoggettare il progresso al proprio monopolio) e, parallelamente, coinvolto nel conflitto generazionale che contrappone due modi di intendere la scienza (per il nonno astratta alchimia, per il padre pragmatica tecnologia), fa molto riflettere su tematiche oggi terribilmente attuali (e, per un cartone animato teoricamente rivolto ai bambini, non è mica poco). Certo, gli manca la capacità di toccare le corde emotive come un qualunque Miyazaki sa fare (sarà un caso che anche qui è all’opera un castello volante?) ma è ingiusto dire, come molta critica, che “lo sviluppo della trama è carente” o che i personaggi sono poco approfonditi: i protagonisti sono dei round character a tutti gli effetti e il loro pensiero si evolve col progredire degli eventi. Inoltre il fatto che non si fronteggino dicotomicamente “buoni” e “cattivi”, come accade spesso nel genere d’animazione, è un altro punto a favore di “Steamboy”. Anche se, ad essere onesti, ciò che rimane impresso più di ogni cosa alla fine, è lo straordinario impatto visivo degli inseguimenti e delle scene di battaglia (la seconda parte del film è un susseguirsi incalzante d’avvenimenti senza un attimo di respiro). “Steamboy” dà un’ottima lezione su come dovrebbero fondersi l’animazione bi- e tridimensionale: il 3D non prevarica mai, è un ausilio per aumentare la spettacolarità di alcune inquadrature. Mai come in questo caso vige la raccomandazione di seguire i titoli di coda: c’è tutta un’altra storia, che potrebbe riempire almeno un secondo film (seguito alle porte?)...

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