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Le canzoni di minaccia tuonavano nella notte: Palermo reagiva ai divieti di protesta

Molti ragazzini di Ballarò gridavano "con la fede e la speranza il pane non riempie la pancia" e cartelli venivano affissi nella notte, lontano dalle guardie del Vicerè

  • 26 agosto 2019

Via Lungarini a Palermo (foto Marco Amato, particolare)

Nei secoli passati mancavano (più che mai) la libertà di stampa e di parola: il protestare apertamente veniva punito con la tortura ed in alcuni casi anche con la morte.

Per questo motivo, nelle ore notturne si appendeva furtivamente un cartello oppure si delegavano i ragazzini ad andare in giro per la città sbeffeggiando con motivi musicali i componenti del Governo cittadino, il Vicerè oppure il Re. Una delle statue preferite su cui appendere i cartelli era la statua di bronzo di Carlo V a piazza Bologni, oppure in altri luoghi dell città molto frequentati.

Anche nelle statue del Genio, che per i palermitani rappresentava Palermo, spesso si appendevano questi cartelli.

Diverse erano le statue che rappresentavano il Genio/Palermo: una si trovava (ancora oggi è sul posto) dentro l'atrio del Palazzo Pretorio, una nella piazzetta del Garraffo, una nella Fieravecchia. Specialmente quest'ultima era la favorita dei palermitani dissidenti. Spesso dal suo collo pendevano cartelli di collera, di protesta, di minaccia.
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Queste proteste, scritte o cantate, non oltrepassavano mai la piazza Bologni perché avvicinandosi al Palazzo reale cresceva il numero delle guardie del Vicerè e spesso la rabbia era abbinata allo sfottò.

Durante il periodo in cui il principe di Partanna Grifeo fu Pretore della Città, un buontempone appese davanti la porta del Palazzo Pretorio un cartello con quattro P.P.P.P. che significavano: Poviru, Palermu, Preturi, Partanna. Con questo motto si denunciava lo spreco del principe di Partanna Grifeo, nuovo capo del Senato.

Nell’anno 1793, i granai comunali erano quasi vuoti ed incombeva la carestia. Il Senato di Palermo (Municipio) non provvide in tempo a rifornire le scorte di grano ma peggio ancora, alimentava sottobanco il mercato nero. Il Pretore era il duca di Belmurgo, Cannizzaro. Contro di lui si levarono le lamentele e fu accusato di essere usuraio e di essersi arricchitosi col denaro della Città.

Molti ragazzini monelli del mercato di Ballarò, girando per le strade gridavano: Cu la fidi e la spiranza, un guastidduni 'un jinchi panza (con la fede e la speranza il pane non riempie la pancia) e continuando: Prituri Cannizzaru, ha misu Palermu cu'na canna a li manu (Pretore Cannizzaro hai messo Palermo con una canna in mano).

L’anno successivo non vi fu la carestia ma il pane, benchè avesse la stessa forma era diminuito di peso di circa la metà. Anche questa volta fu preso di mira il Pretore. Nonostante il Vicerè, principe di Caramanico si prodigasse per evitare il peggio, nel Palazzo Pretorio una mattina apparve un cartello con la scritta: Lu Vicerrè supra la vara staja. Lu Prituri sutta la mannàra (il Vicerè sopra la bara stava, il Pretore sotto la mannaia). Più minaccia di così…

Subito dopo la morte del Vicerè principe di Caramanico, il successore, arcivescovo Lopez y Royo, Presidente e Capitano Generale del Regno, con inganni ed ipocrisie invogliava il ceto medio a depositare alla Zecca oro e argento per ricevere in cambio moneta sonante.

Il 16 Aprile 1798, si trovò attaccata alla solita colonna del Palazzo del Comune ed alle abitazioni dei Ministri del Consiglio e del Governo: O v'aggiustati, tiranni, la testa, o di li morti faremu la festa. E chi vuliti impuviriri a tutti? Chi oru?! Chi argentu?! un... cazzu…(o vi aggiustate, tiranni, la testa, o dei morti faremo la festa. Cosa volete impoverirci tutti? Volete oro, volete argento? Un cazzo…).

Naturalmente queste scritte o canzoni incutevano timore. Dopo la rivolta contro il vicerè Fogliani (che dovette fuggire di notte), si ordinò che «nessuna persona di qualunque ceto e condizione nelle private conversazioni in casa, nelle piazze, nei teatri, nelle caffetterie, nelle sagrestie, nelle chiese, nei conventi, nelle congregazioni» osasse ricordare i fatti avvenuti; nessuno «formare canzoni, sonetti, satire, leggende».

Il vicerè Caracciolo, 10 anni dopo, per la sua condotta "amorosa" fu deriso e sfottuto anche dagli aristocratici, perciò fece spedire in carcere i nobili Vincenzo di Pietro, Ugo delle Favare e Gaspare Palermo, sospettati di avergliene fatti. Vietò «a qualunque persona, di qualsiasi grado, ceto e condizione si fosse il poter comporre, pubblicare, spargere o affissare o scrivere tali libelli e cartelli infamatori e contumeliosi, nè in versi, nè in prose, nè in figure esprimenti il carattere, nè in satire, nè in pasquinj, nè in qualunque altra guisa».

Addirittura promise un premo da trecento onze a chi avesse segretamente denunziato questi delitti.

Anche il poeta Antonino Veneziano si divertita a scrivere ed appendere questi cartelli. Il giorno primo dicembre del 1588 «(…) si trovò appizzato un cartello contro il Vicerè alla cantonera di D. Pietro Pizzinga allo piano delli Bologni. Il 13 gennaio successivo fu preso e torturato e subì, resistendo, ben sette tratti di corda». Nel 1593, fu nuovamente rinchiuso nella fortezza del Castellammare perché «Ultimamente, per un altro cartello trovatosi, essendo egli stato tradito dai suoi amici, che gli deposero contro, fu preso e carcerato…>.

Nel 1798, il re Ferdinando III, aveva chiesto cannoni, soldati, danaro, per fronteggiare i Francesi. Il 21 giugno apparve un cartello che accusava i componenti del Governo locale.

Rappresentava un dialogo tra due persone, composto di parole furbesche. Cominciava con una parolaccia, poi: Vennu li gaddi, addiu gaddini! Addiu nassa, canigghia e puddicini! (arrivano i galli, addio galline! Addio nassa, crusca e pulcini)!

E seguiva la risposta: Addiu nassa, canigghia e puddicini! Minchiuni! ch'è grossa! 'Na vota si mori! (Addio nassa, crusca e pulcini! Minchione! è grossa! Si muore una volta soltanto!). Era un doppio senso dove i galli erano i Francesi, le galline i Napoletani, la nassa la cricca governativa, la canigghia, crusca, la mangiatoia dello Stato, alla quale le galline beccavano, cioè si dividevano i soldi.

Oggi per fortuna non c’è più bisogno di ricorrere a questi espedienti per manifestare il proprio dissenso, più o meno.

Tuttavia, ancora oggi, quando il palermitano si trova a passare davanti la piazza Bologni, si accende automaticamente la voglia di manifestare pubblicamente il proprio dissenso nei confronti dello Stato, del caro vita, della Amministrazione comunale etc.

Perciò, osservando la mano di Carlo V protesa in avanti, dice: "Per campare a Palermo ci vuole un sacco di soldi alto così" (alto quanto la mano che l’imperatore tende in avanti). Oppure: "A Palermo la spazzatura è alta tanta così" (alta quanto la mano che l’imperatore tende in avanti). Se la statua di Carlo V potesse parlare!
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