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La sua bottega ha più di 100 anni: chi è l'artista di Bagheria che fa rivivere i carretti siciliani

Da Carlo Levi a Renato Guttuso, il laboratorio del nonno Michele era tappa obbligata per chi passava da Bagheria. E oggi la sua arte viene mantenuta viva dal nipote

  • 4 marzo 2021

Michele Ducato

Chissà cosa passa per la testa di un bambino di fronte alle gesta dipinte su un carretto siciliano: paladini, cavalieri, principesse, battaglie e amori desiderati ma non corrisposti sono come un libro aperto da sfogliare e su cui fantasticare.

Lo immaginiamo così Michele Ducato da piccolo, con gli occhi sgranati e la bocca spalancata a osservare il padre Giuseppe mentre, concentrato, decora il legno con colori vivaci che ricordano il sole della Sicilia, le arance e i limoni, il cielo e il mare e che, a poco a poco, prendono la forma di storie suggestive e fiabesche.

«Vedere creare qualcosa dal nulla», d’altronde, non può che essere una magia per un bimbo curioso e appassionato che ha sempre “respirato” arte in un laboratorio dove pennelli, tavolozze, metri, bozzetti e colori sparsi qua e là sono stati i “giochi” normali di un’infanzia eccezionale.

Fu il nonno Michele, a soli quattordici anni, a inaugurare questa tradizione familiare, passata “di mano in mano” fino al suo omonimo nipote.
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«Con quella che oggi definiremmo una grande operazione di marketing», nell’ormai lontano 1895 aprì a Bagheria la prima bottega davanti a Villa Cattolica, scegliendo una strada statale di passaggio molto battuta dai carrettieri che trasportavano le merci.

Nel giro di poco tempo, divenne un punto di riferimento sia per i contadini che chiedevano espressamente «Zu Michele, vogghiu ‘a scena ri Orlando ca spacca a “Cani i Maanza” ‘n dui», sia per artisti e intellettuali che andavano dal maestro a conoscere i segreti della sua arte: da Carlo Levi a Renato Guttuso, il laboratorio era tappa obbligata per chi passava da Bagheria.

Quando morì, furono i quattro figli a mantenere viva una tradizione che, nonostante le difficoltà e la crisi subita con l’avvento dei mezzi a motore, ha resistito all’urto del tempo, fino a essere abbracciata da Michele: «Credo molto nelle coincidenze straordinarie e una di queste è la mostra sul carretto voluta nel 1978 da Nino Buttita, Antonio Pasqualino e Renato Guttuso. Grazie a quell’evento il carretto ha potuto vivere una seconda vita, da mezzo di trasporto è diventato un oggetto di culto sempre più richiesto».

Collezionisti, intellettuali e professionisti da tutto il mondo cominciarono, infatti, a desiderare quello che ormai era un simbolo delle tradizioni popolari, e non furono pochi i bagheresi che dopo la mostra, ritrovandosi a casa qualche oggetto dipinto dal padre Giuseppe, bussarono alla sua porta dicendogli «Manca ‘a firma, ce l’avi a mietteri».

Michele aveva solo 5 anni, ma ricorda perfettamente quel fermento. Perché fu allora che, con le sue piccole mani guidate dal papà, iniziò a «esercitare una passione» che non ha mai più abbandonato.

«Devo ringraziare mio padre perché è suo il merito di tutto quello che so fare, con il suo carattere pacato e paziente mi ha sempre incoraggiato insegnandomi un mestiere che amo».

Un mestiere che «non ha scelto di fare», ma che è stato piuttosto «un passaggio naturale». Tanto da mettere presto nel cassetto la laurea in Architettura e sostituire il computer e “AutoCAD” con tavolozza e pennelli.

Oggi Michele ha 47 anni e gode di fama internazionale anche grazie alla collaborazione con Dolce & Gabbana, per i quali ha trasformato dei frigoriferi “Smeg” in vere e proprie opere d’arte.

«Quando ho ricevuto l’email da un loro collaboratore pensavo fosse uno scherzo. Ben presto, però, mi sono dovuto ricredere e, dopo alcune reticenze dovute all’enorme rispetto che nutro per quest’antica tradizione, ho deciso di accettare la loro proposta come una sfida».

Una sfida decisamente vinta, possiamo affermare alla luce del successo che il progetto ha avuto: tradizione e innovazione, infatti, si sono fuse facendo vivere al carretto una terza vita e a Michele «un’avventura bellissima che continua tuttora con una serie di idee in cantiere».

Un’esperienza, questa, che non lo ha fatto “acchianari” (è rimasto umile, ndr), come si dice dalle nostre parti.

D’altronde, umiltà e dedizione sono le sue parole d’ordine, così come insegnatogli dal papà e dai grandi maestri che ha avuto l’onore di incontrare sul suo cammino.

Perché per Michele dipingere non è un lavoro come un altro, ma una passione a cui è «legato sentimentalmente», un'emozione e «un’opportunità per continuare a celebrare una forma di ringraziamento» nei confronti di suo padre per ciò che ha fatto per lui.

«Con l’augurio di essere degno di portare questo glorioso nome», scrisse Renato Guttuso quando Michele era un ragazzino. Aveva intuito bene il nostro amato pittore, perché quell’auspicio si è trasformato in realtà: anche suo nonno e suo padre, che vivono oggi nelle sue mani, sarebbero d’accordo e felici di vedere quanta strada ha fatto.
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