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La Sicilia e quei parenti serpenti: le regole di sopravvivenza per non finire "a schifio"

In Sicilia c’è un proverbio che dice "amici e parenti, un ci vinniri e un c’accattari nienti", cioè meglio non mescolare interessi e affetti perché altrimenti finisce male

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 27 dicembre 2021

"Parenti Serpenti" di Mario Monicelli

In Sicilia c’è un proverbio che dice “amici e parenti, un ci vinniri e un c’accattari nienti”, cioè meglio non mescolare interessi e affetti perché altrimenti finisce a schifio (finisce male).

Ne sanno qualcosa i vari Abele e Caino, Cesare e Bruto, Dalila e Sansone e quella famosissima ultima cena, dove a ora di mangiare e bere sono tutti presenti e poi ti vendono per trenta denari: oggi con trenta euro manco lo specchietto della macchina ti viene.

Ce lo raccontò anche il regista Mario Monicelli con il film “Parenti Serpenti”, quando negli anni '90 accompagnava le nostre cene famigliari tra il Gol Totò Schillaci e Toto Cutugno che "voleva andare a vivere in campagna".

Diciamoci la verità, è tutto un trita e ritrita: "ma come sei fatta magra", "hai tagliato i capelli, ti stanno benissimo!", "Non è giusto che ci vediamo solo per le feste, dobbiamo organizzare più spesso" (e quannu!?).
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Insomma, in ogni famiglia c’è sempre qualcuno che non può vedere qualcun altro che intanto non sopporta un altro ancora: una bellissima compagnia teatrale che non sbaglia mai la prima di mors tua vita mea.

C’era un lontano cugino di nonno che vendeva elettrodomestici di mistica provenienza. «Buona è sta radio?» «Questa funziona pure se la metti sottoterra. Te lo giuro sopra i miei figli!».

Le cose, ovviamente, poi non funzionavano mai, ma alla fine il cugino era stato onesto perché scoprimmo che figli non ne aveva avuti mai. E questo sistema, di giurare e spergiurare, per poi mettergliela nel frac sempre al parente o all’amico, in Sicilia è antico come la camminata a piedi, tant’è che ci dovette fare i conti pure Re Alfonzo.

Ai suoi tempi, infatti, e siamo intorno al 1430, che pititto (fame) ce ne stava assai, la gente giurava come se non ci fosse un domani pur di fottere il prossimo. E uno dei giuramenti più assurdi che circolavano (se siete molto credenti saltate il rigo) era quello sulle budella della Madonna.

Che mente contorta abbia potuto partorire un giuramento del genere io non lo so, ma la cosa si era talmente diffusa che il Re, il 20 dicembre (quindi sotto Natale) del 1433, con un dispaccio minacciò gli impavidi giuratori di pene esemplari.

Nello specifico, se fosse stato sentito qualcuno fare un giuramento del genere in pubblico sarebbe stato condannato a pagare 4 ducati senza remissione di peccato. E nel caso cui non si fosse pagata la detta somma, ai nobili sarebbe stata sequestrata la casa per quindici giorni, mentre i poveri sarebbero finiti in prigione con la catena al collo per la stessa durata di tempo.

Medesima cosa se, oggetto del giuramento fossero state le interiora di Dio o di altri santi, ma con una pena ridotta a 8 giorni (si vede che Re Alfonzo tifava per la Madonna).

C’è un altro detto vecchio che fa “Chi mi putissiru spirtusari a lingua” (che mi possano bucare la lingua). Ecco, anche questo è merito di Re Alfonzo perché, sempre nello stesso dispaccio, impose che ai bestemmiatori fosse trapassata la lingua con un ago da parte a parte, obbligandoli poi a passare con il piercing fresco fresco dai posti in cui era stato commesso il delitto.

Diciamo che il cugino di nonno se la sarebbe passata male ai tempi di Alfonzino.

Altro rapporto sacrissimo che in Sicilia non deve essere mai oltraggiato (tipo sei vai a Palermo non toccare le banane!) è quello del comparato: un compare da noi vale più di un fratello. Tra compari il rispetto è così assoluto che addirittura ci stava un altro proverbio ancora che diceva lu figghiozzu porta setti assumigghi du lu parrino”, ovvero il figlioccio ha sette punti di somiglianza con il padrino.

Non per essere mal pensante, ma se il figlio di qualcuno porta sette somiglianze di qualcun altro e nessuna del padre, per la serie, “chi vuole intendere intenda”, vuol dire che c’è stato qualche problema di fondo o qualche dèfallance relazionale con la commare.

Dovete sapere che il protettore dei compari è San Giovanni Battista: è talmente multitasking che è anche protettore di Albergatori, fabbricanti di spade, forbici e coltelli, sarti, pellicciai, conciatori di pelle e patrono di Genova più un altro poco di città a piacere.

Ma se San Giovanni è buono caro, guai farlo arrabbiare perché è anche il giustiziere dei compari un po’ monelli. Numerosissime sono le storie di compari cornuti e vendicati dal santo che tiene tanto a cuore questa categoria.

La storia che mi ha affascinato di più (vedi Pitré) è quella di Capo Feto, una spiaggia nei pressi di Mazara del Vallo. Si racconta che, tanto tempo fa, la moglie di un fattorino si sia infatuata di un pescatore rude e mascolino non troppo lontano dal Gennarino Carunchio di Lina Wertmuller.

È risaputo che l’eros cosa è pericolosa è. E non si può pretendere di contare solo le stelle e ascoltare il mare dentro le conchiglie… passa oggi, passa domani, la donna restò incinta di Gennarino. E dato che piove sempre sul bagnato, non solo il fattorino si dovette accollare il bambino non suo, ma dovette pure accettare la decisione della moglie che ebbe la pretesa di far battezzare il figlio ad un pescatore.

Stressato dalla nuova condizione di compare, Gennarino pensò di partire e togliersi di mezzo, tuttavia l’amore galeotto lo trattenne e i due continuarono a vedersi di nascosto utilizzando una scorciatoia che dal centro abitato portava alla spiaggia.

San Giovanni la prima volta aveva fatto finta di niente, la seconda aveva chiuso un occhio. Ma quanti occhi doveva avere stu San Giovanni?

Un giorno che i due amanti s’erano appartati a fare porcherie, fece una magia scuotendo la vicina rocca e facendone distaccare una balza. Caput… per gli amanti non ci fu niente da fare.

Il discorso è che munnu ha stato e munnu sarà, ovvero non cambia mai niente perché, in famiglia, tra amici o tra compari, queste sono storie che si ripetono dall’alba dei tempi.

Per fortuna non tutto è da buttare e nei momenti difficili si ritorna ad essere uniti e solidali.

Per esempio, la sera che l’Italia giocava contro l’Austria, zio stava raccontando a tutta la famiglia che in India c’è un santone di nome Amar Bharati che un giorno, nel 1973, ha deciso di alzare un braccio in aria e d’allora non l’ha più abbassato.

In quel momento Totò Schillaci fece gol, nonno alzò il braccio anche lui e rimase così. Pensammo tutti che volesse imitare Amar Bharati... era un'ischemia.
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