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La sfida a chi ha "la pila" più alta: la (vera) storia della Vampa in una Palermo vecchia

È stato un rito di passaggio la Vampa di San Giuseppe, e come tutti i riti, è nato per motivazioni che la tradizione e la pratica (purtroppo) hanno nel tempo dimenticato

Susanna La Valle
Storica, insegnante e ghostwriter
  • 19 marzo 2021

La preparazione della Vampa di San Giuseppe in quartiere popolare di Palermo negli anni 70

È stato un rito di passaggio la Vampa di San Giuseppe, e come tutti i riti è nato per motivazioni che la tradizione e la pratica hanno nel tempo dimenticato.

Provate a chiedere perché anno dopo anno si è andati alla ricerca di pezzi di legno da accatastare, sfidando i quartieri vicini della Palermo vecchia.

Tutti impegnati a edificare la pila più alta. Nessuno vi dirà che la Vampa è una rappresentazione sacrale del passaggio dall’oscurità alla luce, nessuno vi saprà dire perché era realizzata non il giorno di San Giuseppe il 19 Marzo, ma un giorno prima, dopo le 18.00 al calar del sole.

Dubito che qualcuno degli “officianti” sappia il motivo di questo tempo sospeso di tre giorni, che porta all’equinozio di primavera, vero e proprio "stargate" (varco) che conduce al risveglio della natura e della vita, dopo il lungo inverno di tenebre.

La motivazione che vi sarà data è quella della tradizione legata alle generazioni precedenti, che troveranno nella gara e nell’altezza del fuoco, un motivo di riscatto e supremazia rispetto ai “ vicini” degli altri quartieri.
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Il Fuoco più alto diventa così il segno della vittoria di un'affermazione povera tra povera gente, un potere nella Palermo Vecchia. Si sa quando la tradizione si sovrappone al rito e al mito, la ricerca storica, lascia il tempo che trova, e perde significato.

La ripetizione rituale della tradizione con nuove motivazioni, annulla le radici ancestrali che ritornano nelle pieghe del tempo oggetto di studi per studiosi.

Poco importa tracciare il sottile confine tra paganesimo e religiosità, un esercizio cattedratico che non importava ai bambini festanti che per tanti anni hanno raccolto ogni pezzo di legno, disputandolo con gli altri coetanei dei quartieri vicini, improvvisando piccole guerre e che insieme alle famiglie assistevano in circolo in silenzio e raccoglimento all'accensione del fuoco, e che una volta consumato poteva diventare un enorme barbecue dove arrostire e consumare della carne come nei migliori sacrifici di lontana e storica memoria.

La figura di San Giuseppe diventa così da sfondo, come in molte feste pagane occupa un posto solo per esorcizzare e mutare un rito pagano.

Certo, il fatto che il fuoco sia alimentato dal legno ci riporta alla tradizione cristiana del Santo, ricordato come un falegname, ma obiettivamente oltre questo collegamento, la figura di Giuseppe, non trova altre analogie o spiegazioni.

Il fatto che fossero recitate preghiere con richiesta d'intercessione al Santo mentre si assisteva al divampare delle lingue di fuoco, è solo un adeguarsi alla necessità di normalizzare e sfruttare "cristianamente" un rito con radici oscure.

Vincenzo ricorda da bambino (parliamo degli anni Cinquanta) che la preparazione del falò partiva diversi giorni prima della festa. «Dopo il Carnevale - racconta - iniziava la ricerca della legna che noi depositavamo nella piazzetta di S.S.Salvatore, in tempo per fare la Vampa di "San Giusippi"».

Cinquanta bambini che come formichine andavano in giro per il quartiere alla ricerca di ogni singolo pezzo di legno, chiedendo a tutti di contribuire e portando indietro "al formicaio" il bottino, accatastando tutto con lo scopo di avere il falò più grande rispetto agli altri quartieri».

La raccolta impegnava i piccoli per diversi giorni, e Vincenzo con il lavoro del padre, costruttore di giocattoli in legno, era in questo contesto un punto di riferimento nella combriccola.

A casa aveva una stanza, dove il padre lavorava. Liberarla dei pezzi che una volta tagliati non erano più utilizzabili, diventava per la famiglia la possibilità di ripulirla e sistemarla, e per Vincenzo il riconoscimento di essere il più attivo nella realizzazione della festa.

Non è difficile immaginare queste squadre di bambini rastrellatori del legno, e di come la partecipazione degli abitanti del quartiere diventasse fondamentale per la riuscita dell’evento.

Vincenzo ricorda che quando arrivava il giorno e la "tanto sospirata sera, si accendevano le fiamme che arrivavano a più di 10 metri di altezza".

Tutto il quartiere riunito in circolo, officiante e fruitore del rito assisteva al dispiegarsi delle fiamme.

«La Piazza era affollatissima, c’erano più di cento persone tra grandi e piccini, e appena uno gridava, "Viva San Giusippi", tutti gli altri gridavano: Vivaa, Vivaaa…».

Così mentre il fuoco saliva e illuminava la piazza insieme alle altre vicine, salivano le invocazioni del popolo devoto, raccolto in un rito riorganizzato e cambiato, ad uso esclusivo dei vecchi quartieri, che mostrando ancora una volta la sua lontananza dagli usi e tradizioni di una Palermo borghese, tracciava un ulteriore allontanamento con quella realtà.

La tradizione cristiana all'ombra del Santo artigiano, con questa festa trovava così la sua salvezza e ragione, lasciando più sommessamente e nascosta la matrice pagana della festa.
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