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"A ciaramedda, 'u carruzzuni, il panettone chi passuli": il Natale (popolare) a Palermo

Il consumismo per troppi anni ha “sequestrato il Natale”, oggi possiamo vivere quello vero ritornando alle origini del suo autentico senso grazie a storie come quelle di Vincenzo

Susanna La Valle
Storica, insegnante e ghostwriter
  • 25 dicembre 2020

Zampognaro esegue la Novena di Natale, Palermo 1951 (dettaglio della foto di Archivio Pubblifoto di V. Brai pubblicata sul libro La zampogna a chiave in Sicilia di Sergio Bonanzinga - Fondazione Ignazio Buttitta).

«Nei giorni precedenti il Natale, nella piazzetta di S.S. Salvatore dove vivevo, arrivavano due persone vestite da pastore che venivano a suonare la “Ciaramedda” (la zampogna); era il segnale che la festa era vicina».

Quelle di Vincenzo sono pagine cariche di umanità e realismo che ho provato a trascrivere, cercando di conservarne l’autenticità e la freschezza espositiva.

«Ho sempre lavorato nella mia vita ed ho iniziato a sette anni aiutando mio padre a costruire giocattoli. Non mi sono mai posto il problema perché dovevo lavorare pur essendo così piccolo, per me era una cosa giusta che andava fatta. Se all’inizio aiutavo mio padre, meno di due anni dopo trovai il mio primo lavoro retribuito in una merceria».

Il negozio vicino alla piazzetta di Ballarò, era gestito da due sorelle zitelle, amiche di mia mamma, che andava a comprare da loro la lana, per il lavoro a maglia. Fu lei a dirmi che le sorelle mi proponevano di andare a fare la spesa, portandola poi a casa loro, vicino la stazione. Il lavoro sarebbe stato tutti i giorni anche la domenica.
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La spesa acquistata nel mercato ricordo che era pesante, la mettevo in un sacco di stoffa dai lunghi manici che portavo a tracolla. Mi stancavo e la strada era lunga così, appena vedevo passare una carrozza, mi attaccavo dietro sperando che "u gnuri” (il cocchiere) non si accorgesse della mia presenza. Dovevo inoltre andare in una cartoleria a comprare le buste per il negozio. La cartoleria era gestita dalla Signora Maria insieme al marito invalido di guerra.

Fu così che, a forza di vedermi, la signora mi fece un’offerta di lavoro. Mi chiese quanto prendevo dalle sorelle e mi propose ben 3000 lire a settimana per andare a portare carta e sacchetti ai negozianti di Ballarò. Dissi subito di sì, senza neanche pensarci, 3000 lire era per me una manna caduta dal cielo.

Unica condizione fu quella che potevo lavorare solo il pomeriggio poiché la mattina dovevo andare a scuola. La differenza tra 700 a 3000 lire era molto allettante e non pensai ai problemi che avrei incontrato.

Così non finii la settimana dalle sorelle che già ero a lavorare alla cartoleria Garibaldi. Il mio lavoro consisteva nel prendere le ordinazioni dai negozianti, che appuntavo diligentemente su un foglietto, per poi passare in cartoleria a prendere le balle di carta da consegnare a pescivendoli, fruttivendoli, “ carnezzieri” e droghieri.

Il peso variava tra i 20 e i 25 kg che caricavo sulla testa (non avevo nulla per trasportare); era faticoso e alla fine della giornata avevo il collo dolorante. Ero piccolo e facevo tenerezza, tutti mi davano qualcosa da mangiare e in breve diventai amico di tutti.

Quelle 3000 lire erano veramente sudate e così pensai a un “piccolo indennizzo”: per ogni chilo di carta aggiungevo 10/20 lire in più sul conto previsto; prima di andare a riscuotere dai negozianti ogni sabato, mi mettevo in un vicoletto e calcolavo le maggiorazioni e così cominciai a guadagnare un bel po' di soldini.

Come omaggio la cartoleria dava un profumino ogni 1000 lire di spesa ai clienti. Io per la maggior parte li nascondevo nel mio covo segreto mettendoli tra i buchi del muro di via Cagliostro, un vicolo tra via Saladino e Piazzetta Ballarò, chiamata anche “la vanedda o i pisciaturi“, piena di rifiuti. Era il posto dove i negozianti di Ballarò gettavano frutta marcia, ossa, pesci “passati”; brulicava di topi e la gente evitava di passare da lì.

Per me era quindi il nascondiglio perfetto e, quando la cartoleria chiudeva, andavo a ritirare il mio “ bottino” mettendolo nella cintola, profumini che poi avrei usato per ingraziarmi altri negozianti.

Così lavoravo anche il 24 di dicembre, giornata di consegna e riscossioni. I soldi guadagnati mi avrebbero permesso di comprare diverse cartelle della tombola, aumentando la possibilità di vittoria. Aspettavo con ansia la sera della Vigilia; con la famiglia andavamo da mia zia che aveva una panetteria (eravamo più di trenta a tavola).

Mio zio sfornava le teglie di sfincione profumatissimo e, dopo cena, “si usciva il panettone chi passuli” insieme “a piatrafiannula” (un dolce molto duro) e ai mostaccioli, delizia di noi bambini. Non c’erano giocattoli o regali, quelli li ricevevamo per “i morti”, ma c’era la festa e il gioco.

I nostri passatempi preferiti erano per strada i giorni di festa, ci costruivamo da soli "u carruzzuni”, un antenato dello skateboard e i “lannuzzi”, tappi di metallo che con un martelletto facevamo diventare piatti, usandoli come fiches a “pari e dispari”.

Ancora oggi dopo tanti anni mi commuovo nel ricordare quella gioia semplice, apprezzata di più perché guadagnata dopo aver lavorato duramente. Ho ancora negli occhi le serie di luci che conservavamo gelosamente e con attenzione nelle scatole, insieme alle fragilissime palline di vetro colorato che mettevamo sull’albero; se socchiudo gli occhi rivedo ancora l’albero, bellissimo, magico e con la lana di vetro che sembrava candida neve poggiata sui rami…”.

I ricordi di Vincenzo sono echi lontani, che si confondono con visi di parenti e compagni di giochi.

Era il respiro di un tempo sospeso, che anche noi abbiamo vissuto e perduto. Se Papa Francesco ha dichiarato che il consumismo per troppi anni ha “sequestrato il Natale”, oggi possiamo vivere quello vero, ritornando alle origini.

Ognuno di noi vivrà in solitudine la sua“ Betlemme”, come la Sacra Famiglia, senza parenti, amici. Per evitare di soffrire, come Vincenzo conserveremo i momenti più belli, ma dovremo anche costruire nuovi ricordi ed abitudini, una sfida impegnativa da affrontare e vincere.

E se proveremo malinconia e tristezza, ricordiamoci il fine ultimo di tutto questo: proteggere noi, i nostri cari e i più fragili.
Auguri a tutti, Auguri a noi.
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