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Il canarino, lo "scanto" e il whisky: gli antichi (e strani) rimedi delle nonne siciliane

Dal mal di pancia al singhiozzo e persino per i vermi nello stomaco, le nostre nonne avevano un rimedio contro ogni malanno. E voi quali di questi avete provato?

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 9 ottobre 2023

Nonna felice

Il faraone nell’antico Egitto era considerato una sorta di Dio e per questo teneva un dottore per ogni malattia allora conosciuta e uno per ogni parte del corpo. I dottori per questo motivo portavano titoli come «il guardiano reale dell'orecchio destro del faraone» o «il guardiano reale dell'orecchio sinistro del faraone».

Uno dei medici più famosi dell'Antico Egitto era un pastore di nome Nehru che si occupava di somministrare medicine per via rettale al faraone. Il suo titolo era: «Pastore dell'ano reale».

Al contrario, a casa di zio Aspano a zia Agatina si faceva economia e si preferiva ripiegare sui metodi naturali di facile reperimento, anche perché i medicinali erano dei malati e tenerne troppi in casa portava magari sfortuna.

Chi ha subito il trauma di vivere in quegli anni - ma ad ognuno il trauma della sua generazione - potrà ricordare benissimo che al posto dei normalissimi farmaci di primo aiuto si ricorreva a tutta una serie di metodi che mago Merlino può accompagnare solo.
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Ma quale kit di pronto soccorso?! Chi l’ha visto mai dentro casa?! L’unico Kitt che conoscevamo era il nome della macchina parlante della famosissima serie anni 80’ Supercar. Poi c’era il cioccolato KitKat ma era una porcarìa e faceva cadere i denti e il “Kitt’accattasti?” di mia nonna ogni volta che mi regalava 20.000 lire per il compleanno e il giorno dopo mi chiedeva conto e soddisfazione.

Quando ai nostri tempi qualcuno si struppiava, cioè si faceva male o stava poco bene, questo benedetto kit di pronto soccorso si spartiva tra lo stipetto delle spezie in cucina, il frigorifero e cose varie che si trovavano in natura in quel momento.

Un po’ come i filosofi greci Talete ed Eraclito facevano a pugni con le loro teorie cosmogoniche, secondo cui l’archè di tutte le cose erano rispettivamente l’acqua per uno, il fuoco per l’altro, quando ti azzardavi a dire che avevi mal di pancia si metteva in moto un acceso dibattito che vedeva contrapposte due principali scuole di pensiero (dipende da che nonna avevi).

Secondo la prima per far passare il mal di pancia bisognava mangiare in bianco e così ti mettevano a riso e pasta con l’olio per una settimana; l’altra scuola di pensiero (la più diffusa) portava avanti la concezione che la cura a tutti i mali fosse il cibo, così pure se ti veniva l’intossico da avvelenamento ti sentivi dire mancia ca ti passa.

Per fortuna qualche saggio stregone si sperimentò l’acqua calda con l’alloro e il limone, anche detta canarino, elementi della quale facevano largo consumo gli antichi greci e sulla quale abbiamo già scritto.

Dobbiamo dire che però faceva veramente miracoli e in bagno dava soddisfazioni. Diverso era, ahimè, se ti veniva mal di denti. Per una qualche strana opinione dell’epoca il dentista serviva solo a scippare i denti, mica a fare passare il dolore. Così dopo averti fatto ingurgitare invano litri di gocce di Novalgina, ancora una volta entrava in gioco l’arcaico medicamento secondo cui per calmare il dolore era consigliato tamponare il dente cariato con Whisky, Brandy o comunque super alcolici superiori al 40%.

Non è che calmava il dolore, u picciriddo si ‘mbriacava e si svegliava il lunedì quando riaprivano i dentisti. Se invece non c’era tempo da perdere e il dente cariato andava estirpato prima, ricordo che ancora circolava con discreto successo lo stratagemma del filo attaccato al dente e alla porta, che una volta chiusa con forza avrebbe dovuto risolvere il problema. E che importa se faceva male, tanto poi arrivava San Nicola o il topino dei denti e ti davano 500 lire.

Se tornavi a casa con un taglio e il sangue che colava, prima ti prendevi i colpi di "cretino" perché ti eri fatto male, poi si procedeva alla sutura. Ecco che nonna s’infilava in cucina e tornava con la zuccheriera e mi versava lo zucchero sulla lesione. No, non s’era fatta di LSD e mi aveva scambiato per una tazzina di caffè amaro, semplicemente si è sempre pensato che lo zucchero avesse proprietà stagnanti.

Attualmente la medicina ufficiale sta dichiarando guerra ai saccaridi, avvertendoci di tutti rischi derivati da una sovrassunzione. Tuttavia un recente studio condotto da Moses Murando, docente di “adult nursing” all’Università di Wolwerhampton è stato premiato dal Journal of Wound Care Awards 2018 per gli effetti benefici dello zucchero nelle ferite.

In pratica non era dotato di proprietà stagnati ma di alte proprietà disinfettanti, «favorendo la guarigione e inducendo l’eliminazione dei batteri» ed altre cose così.

Poi c’erano dei casi che sono finiti sotto esame alla Santa Sede perché alcuni di noi tornavano a casa con una sbucciatura, la disinfettavano con lo spirito (alcol rosa) ed iniziavano a parlare l’aramaico, il greco antico e altre lingue morte… i più esposti a questa pratica da grandi sono diventati tenori di successo.

Qualche anno dopo diventò di uso comune l’acqua ossigenata ma sempre alla Santa Sede andavi a finire perché buttavi schiuma a tinchité tipo L’Esorcista.

C’era un rimedio anche per il singhiozzo, scientificamente l’irritazione del nervo frenico che produce contrazioni involontarie del diaframma… hic! La cosa del trattenere il respiro per farlo passare se la uscì addirittura Ippocrate circa 2400 anni fa, consigliando all’incirca di mantenere l’apnea per 25-30 secondi.

Qualcun altro aggiunse la pratica dei sette sorsi senza respirare ma siamo sempre là. Più grave è la questione dello scanto che fa passare il singhiozzo, ovvero lo spavento improvviso. Più grave non tanto perché implichi chissacché, quanto perché ognuno di noi ha ricordi di un qualche parente rincoglionito che si nascondeva dietro il credenzone nel tentativo di farti spaventare quando passavi (in ogni famiglia mediamente ce n’è uno).

E proprio a proposito di scanto, una volta Filippo cadde dal rimorchio dell’ape 50 sulla quale stavamo giocando. Nonostante il braccio gli fosse diventato come un dipinto di Salvador Dalì, non gliene fotté niente a nessuno perché il primo pensiero andò alla possibilità che il bambino si fosse preso una scanto, uno spavento.

Lo scanto portava alla formazione di vermi nello stomaco che qualcuno doveva assolutamente estirpare. Solitamente era sempre un’arcana vicina di casa. Filippo lo portarono sul tavolo della Signora Pina e lì lo stesero tendendolo perfino dal dipinto di Dalì come fosse posseduto.

La signora Pina prima fece delle croci sulla sua pancia, poi prese una tazzina di caffè, unse i bordi, gli infilò dentro uno spicchio di aglio e la capovolse sull’ombelico del malcapitato. Se la tazzina si fosse staccata serenamente allora non c’era niente, ma c’erano 40°, eravamo sudati come i disgraziati, appena tirarono la tazzina per poco non sollevarono pure Filippo.

Lunniri è santu
martiri è santu
mercuri è santu
ioviri è santu
venniri è santu
sabatu è santu,
la duminica di Pasqua
stu vermi ‘nterra casca.


Alla fine se la cavò con qualche filastrocca e un po’ di massaggi sulla pancia. Chissà come si sarebbe chiamata la signora Pina ai tempi dei faraoni e di Nehru "pastore dell’ano reale"?!
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