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Era l'antenato di Batman: il viceré che se la prese con le avvelenatrici e uccise "La Sarda"

Il viceré Alcalà, in Sicilia, ne ha viste di cotte e di crude nel Seicento e qualsiasi cosa succedesse lo chiamavano al grido di “Houston abbiamo un problema”

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 3 luglio 2020

Un dipinto di Lucrezia Borgia

L’avvelenatrice e il viceré. Anno stravagante il 1633. In Francia c’era il cardinale Richelieu (quello de “I tre moschettieri” per intenderci) in qualità di primo ministro di re Lugi XIII, il giorno del mio compleanno, il 22 giugno, Galileo Galilei è costretto a ritrattare la teoria eliocentrica.

Come papa avevamo un certo Urbano VIII che di religione ne capiva poco ma in compenso amava mettere tasse (infatti era chiamato papa gabella) e organizzare bellissime feste a Castel Gandolfo dove invitava tutti i politici del tempo, aspiranti soubrette, attori, cantanti e, sul più bello, chiedendo gentilmente “mi consenta”, iniziava a decantare le poesie da lui stesso composte mentre un musicista gli andava appresso.

In Sicilia invece era da poco arrivato come viceré Ferdinando Afan de Ribera duca di Alcalà, un viceré così preciso, ma così preciso, che spesso arrivava così in anticipo che si doveva aspettare da solo. E all’inizio furono forse proprio la sua precisione e la sua dedizione che gli causarono non pochi problemi di ambientamento.
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Infatti capitava sovente che un giorno lo chiamavano da Messina al grido “Houston abbiamo un problema” e partiva per Messina, il giorno dopo lo chiamavano da Palermo, sempre al grido di “Houston abbiamo un problema”, e partiva per Palermo; insomma, durante il suo mandato questo viceré fece così tante volte avanti e indietro che ormai lo chiamavano “Duca d’Alcalà un colpo ccà e un colpo ddà” (un poco qua e un poco là).

Ora, il punto è che se questa precisione ce l’ha un cristiano normale al massimo va a finire che sale le scale a due due oppure inizia a raccogliere coupon del supermercato per sgubbarci sulle offerte; se però a essere affetto da “disturbo ossessivo compulsivo” (così è definita nel DSM -manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali- quel disturbo dell’ansia che noi in Sicilia chiamiamo “pillicuseria”) allora sono problemi di quelli seri.

Giusto giusto, quando Alcalà s’arricampa a Palermo ci sono le coste dell’isola infestate di pirati turchi, turchini e celesti che si avventano su povere vittime che manco hanno più gli occhi per piangere; l’entroterra è invece invaso da bande di briganti che siccome non hanno più a chi rubare, si rubano fra di loro. Inizialmente Alcalà si tira i capelli e si mette a piangere in cinese (quindi “piangele”) poi, per fortuna o per disperazione, gli sale il Mario Brega che c’è in lui, gli viene la botta di coraggio e dice: “Ah giovanò, ‘sta mano po esse fero e po esse piuma!”.

Passa poco tempo e le ciurme di pirati sono ridotte a turisti svizzeri sul pedalò e le bande di briganti diventano boyscout che aiutano i viaggiatori ad attraversare la strada. Ferdinando Afan de Ribera duca di Alcalà diventa presto il terrore dei malfattori al punto che si racconta che i briganti lasciano la Sicilia e se ne vanno a nuoto in Calabria.

Gli viene addirittura appioppato l’epiteto di “Vendicator severo dei delitti” che a lui piace così tanto che acconsentì fosse scolpita a porta Vicari la scritta “SCELERUM IMPLACABILIS ULTOR” (implacabile vendicatore del crimine). Gesù, Giuseppe e Maria questo era l’antenato di Batman!

Non bisogna però pensare che il Duca di Alcalà fosse tipo cattivo, era soltanto “un pochen troppen ordinaten”. Nello stesso momento, mentre il viceré faceva la scanna a colpi di spade e schioppettate, zitta zitta, in una delle infinite viuzze di Palermo, probabilmente dentro una delle tante catapecchie, anche un’altra persona stava facendo la scanna: un’avvelenatrice che tutti conoscevano come Francesca La Sarda, non perché venisse dalla Sardegna ma molto più probabilmente perché era così secca che pareva una sarda salata.

Attenzione, Palermo è stata città piena di avvelenatrici, alcune famose, altre meno: la vecchia dell’aceto, Giulia Tofana e molte altre, magari completamente dimenticate, le cui pozioni erano diverse l’una dall’altre per effetti e letalità. Si, ma chi erano i clienti di questa Francesca la Sarda? Tutti! Come tutti? Tutti!

Dal povero muratore che voleva uccidere l’amante della moglie, alla ricchissima duchessa che invece voleva uccidere il marito per andarsene con l’amante: le avvelenatrici solo una cosa avevano in comune con le buttane: la trasversalità della clientela. Secondo quanto riportano i racconti, il veleno di Francesca la Sarda era quello che più di tutti somigliava all’acqua, di fatti nell’etichetta c’era scritto: “Altissima, purissima, mortissima” (questo magari non è vero ma è per rendere l’idea).

Dunque, capitava, e questo vale un po’ per tutte le avvelenatrici, che finché si mandava al camposanto il morto di fame il più delle volte finiva lì; quando invece, ma non era sempre così, succedeva che a morire era un nobile o magari, molto più probabile, la moglie veniva scoperta, quella che pagava era sempre chi il veleno lo faceva.

Stranamente, il duca di Alcalà era sembrato disinteressato alla categoria, forse anche perché sapeva che una porta si e una porta no, specie nei palazzi nobiliari, si mettevano le corna e si pugnalavano con stessa frequenza con cui si cambiavano il vestito. Accadde però che un bel giorno gli rapirono il figlio Ferdinando Afan de Ribera marchese di Tarifa che aveva solo diciannove anni. Se ne rivide il corpo, o no, non lo sappiamo ma di certo fu il dolore più grande della sua vita e -per questo dicevamo che in fondo era uomo di valore- volle a tutti i costi partecipare ai funerali che durarono ben nove giorni.

Il duca di Alcalà giustamente cadde in depressione, si buttò all’alcol e tante cose brutte. Poi, toccato il fondo, quando sembrava sorte irreversibile, gli salì di nuovo Mario Brega, si guardò allo specchio e si disse: “Arzate, arzate a cornuto! Arzate!” Da quel momento in poi, e non avrebbe potuto essere altrimenti, il viceré scaricò tutto il suo dolore contro le avvelenatrici.

Era il 16 febbraio 1633 quando Francesca la Sarda usciva scortata dal carcere della Vicaria per raggiungere il patibolo della vicinissima Piazza Marina, su cui sarebbe stata giustiziata. Per l’occasione, visto il clamore, erano stati costruiti grandi spalti in modo da contenere tutti gli spettatori. Due cose sono incontrollabili: le masse furiose e l’ignoranza; quel giorno c’erano entrambe.

Sputi, insulti, risate: questo vide Francesca nel suo ultimo istante di vita. Non fece una piega, si limitò solo rispondere agli spettatori dicendo: “E fatevela sta bella risata, tanto molti di voi stanno venendo a farmi compagnia!” Nello stesso istante in cui Francesca spirava gli spalti collassavano su loro stessi causando la morte di molte persone. Francesca era sta di parola.
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