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A Palermo si può viaggiare nel tempo: basta andare sottoterra e lasciarsi guidare nelle Muchate

Per "ritornare" verso il futuro non rimane che fare questo "viaggio" che vi raccontiamo. Se non fosse stato per il signor Dino la via d'accesso oggi sarebbe bloccata per sempre

  • 13 maggio 2022

Muchate Arabe di Palermo (foto da cittametropolitana Palermo)

Non c’è la famosa DeLorean (del film “Ritorno al futuro”) a trasportarci in un lontano passato a una velocità di 88 miglia orarie, ma anche a Palermo si può viaggiare nel tempo. Proprio dove meno ce lo si aspetterebbe.

Sottoterra, nella zona che va da via Castellana Bandiera (già protagonista dell’omonimo film di Emma Dante) alla Fiera del Mediterraneo, ormai conosciuta ai più come “hub vaccinale e drive in per tamponi”, c’è un luogo che possiede tutti gli elementi per la trama di un film d’avventura.

Con elmetto e scarpe comode, in men che non si dica, dalla moderna via Ruggero Marturano ci si può ritrovare infatti nelle impolverate Muchate arabe: le cave di calcarenite attive fino al 1900 da cui tantissimi anni fa si estraeva il materiale per le chiese, le case e i monumenti che hanno portato il capoluogo siciliano al vecchio splendore di cui ancora oggi gode.

Ovviamente con delle guide d’eccezione che ne facilitano l’immersione. No, non sono né il mitico Doc con i suoi capelli da scienziato pazzo né Marty McFly con la sua leggendaria camicia a quadri. Eppure sia il signor Diego La Mantia (detto Dino e proprietario dell’unica via d’accesso verso il passato) sia il geologo Claudio Scaletta (con la sua tuta arancione) riescono a rimpiazzare perfettamente i protagonisti di un film che ha fatto la storia.
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Sono loro che, grazie a un tour organizzato da Terradamare e Assoguide, conducono il “teletrasporto” da un’epoca all’altra. Basta percorrere il corridoio di un garage in penombra, oltrepassare la saracinesca di un box un po’ caotico, scendere una scaletta e… puff, il viaggio verso l’antica Balarm è fatto.

Una città completamente diversa, dove il bello veniva preservato. Dove gli aranceti e i campi coltivabili non venivano intaccati dalle cave che, complice anche il fatto di non dover subire le condizioni metereologiche, venivano pensate sotterranee piuttosto che ‘a cielo aperto’.

Ecco quindi che, senza quasi accorgersene, ci si ritrova a un livello più in basso. E immediatamente, con i racconti che scandiscono le immagini, sembra di sentire la fatica e il sudore dei carusi che, sui nudi e gracili corpi ancora da sviluppare, portavano un peso più grande di loro.

Già, perché era un lavoro da bambini. Dai 6 ai 12 anni, era questa l’età della maggior parte di chi ha reso grande la nostra città procurando il materiale necessario per costruirla. Una vita senza giochi, la loro, ma al buio. Entravano la mattina presto, prima che il sole sorgesse, e uscivano quando era già tramontato. Con la possibilità, più che concreta, di ammalarsi.

Durante la visita in qualche modo ci si immedesima: spegnendo le lampadine dell’elmetto e le torce degli smartphone, ci si ritrova tutti insieme a respirare un luogo senza vederlo. E così si può sentire il silenzio e il fragore di un’esistenza di cui rimane ancora traccia, dopo anni, nelle incisioni degli attrezzi che quei caruseddi usavano per tagliare i blocchi. Sparse qui e lì, danno il senso e il ritmo di un’infanzia negata.

Oggi fortunatamente i bambini si calano nel passato soltanto per sperimentare un’avventura alla Indiana Jones: possono vedere alcuni fossili, una bomboletta d’epoca di carburo che caricava la lucetta degli elmetti, le gocce d'acqua che nei millenni si trasformano in stalattiti e stalagmiti, i pali di fondazione degli edifici costruiti sulla cava a partire dagli anni Sessanta. In alcuni tratti, possono perfino spingersi a carponi per arrivare davanti a un pozzo e una scala fatta di gradini intagliati nella pietra.

Un’esperienza che, se non fosse stato per il lungimirante e appassionato signor Dino, nessuno potrebbe fare. È stato lui, infatti, a bloccare qualche tempo fa la costruzione di un muro che avrebbe chiuso per sempre l’unica via d’accesso.

Senza il Doc Brown della nostra Palermo, oltre dieci chilometri di ambienti ipogei e il loro inestimabile valore sarebbero rimasti fermi al Novecento, soppiantati da edifici moderni e dimenticati a causa di un’imponente urbanizzazione che ha cambiato completamente il volto della città.

Per ‘ritornare’ verso il futuro non rimane che fare questo ‘viaggio’. Non c’è neanche tanta strada da fare: d’altronde, come diceva lo stesso scienziato più famoso nella storia del cinema «Strade? Dove andiamo noi non servono strade!».
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